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abitare


          L’uomo esiste come uomo, esiste in quanto uomo, perché abita (…) 
(…)“abitare vuol dire coltivare e custodire il campo”
(Silvano Petrosino - Heidegger)








mercoledì 6 maggio 2015

ABITO QUINDI SONO. 

Incontro con Silvano Petrosino

di Sara De Carli
Dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva, diceva Hölderlin. Lo citava Heidegger, come sorprendente chiusa di un saggio sulla tecnica, e si sa che Heidegger una volta che ti ha colpito non ti lascia più andare. E così, accettando di stare dentro questa catena, Silvano Petrosino raccoglie la sfida intellettuale del rischio. Se in Babele (Il Melangolo, Genova 2003) affrontava il delirio del senso dell’abitare umano, simboleggiato dalla celebre torre, in Capovolgimenti (Jaca Book, Milano 2008), porta all’estremo il nesso ontologico fra l’uomo e il luogo che abita: l’uomo non può che abitare, esiste abitando, cioè prendendosi cura dello spazio che lo circonda, uno spazio che curva lungo due direttrici, il coltivare e il custodire. Se si ragiona così, partendo dall’uomo e dalla sua natura, la casa dell’uomo non potrà mai essere una tana. Così come come l’economia, cioè la giusta legge della casa e di chi la abita, non potrà mai coincidere con il business. Eppure tutti vediamo quotidianamente il contrario.
Sono i capovolgimenti – quello della sicurezza perfetta, dell’ospitalità assoluta e del profitto infinito – che stravolgono ciò che dovrebbe essere ma che hanno, come ogni perversione, i loro sottili vantaggi. Per Petrosino non possiamo eliminare il rischio di cascarci dentro, se volete è una condanna, ma abbiamo sempre la possibilità di cogliere lo scarto e di tornare a interrogarci (sempre) sulla giusta misura del nostro stare nel mondo.
Lei stabilisce una connessione ontologica fra la persona umana e il luogo che essa abita. Solitamente si ragiona o sulla persona o sull’abitare, senza intuire che tra le due c’è una connessione così profonda. Ce la spiega?
Il punto di partenza è Heidegger, che distingue fra spazio e luogo. Il luogo è altro dallo spazio, è lo spazio che si curva attorno a un individuo determinato, un esistente, per cui se tu vuoi capire un luogo devi capire innanzitutto l’essere che lo determina. Cosa facile da dire ma complicata quando il vivente in questione è l’essere umano: nel caso del vivente la legge è molto semplice, è quella della sopravvivenza, del territorio di caccia – la ricerca del godimento, la riproduzione della vita, l’affermazione del più forte – ma nel caso dell’uomo questi elementi (che ci sono) non sono sufficienti.
Qual è il modo proprio in cui l’uomo “curva” lo spazio che lo circonda?
La formula potrebbe essere questa: Heidegger dice che l’uomo esiste in quanto abita, ed è molto bello, perché dice che il modo di esistere dell’uomo si determina nell’abitare, nel dare forma allo spazio. Io faccio questa aggiunta: l’uomo abita in quanto è abitato.
Abitato da che cosa?
Dall’alterità. Io credo sia sbagliato introdurre il tema dell’alterità immediatamente in rapporto a Dio: quella è una dimensione, ma non l’unica. L’alterità va sempre letta invece nelle sue tre dimensioni, sempre intrecciate: l’alterità nei confronti dell’altro, che si declina poi nel tema dell’ospitalità e del reale; l’alterità nei confronti dell’Altro/dell’alto; l’alterità nei confronti della propria interiorità, poiché c’è sempre qualcosa di estraneo anche nel proprio io.
Per questo la casa dell’uomo non può mai ridursi a una tana?
Certo, la tana per l’uomo non funziona perché è la speranza illusoria di assorbire totalmente l’alterità, di metterla a tacere. Ma questo è impossibile. È ovvio che l’uomo determina lo spazio costruendosi attorno un ambiente-mondo ordinato, “a portata di mano”: nel mondo c’è l’idea di cosmo, di agenda, spazio ordinato. In questo senso il mondo è per eccellenza lo spazio che si costruisce e si declina attorno a noi, sotto il nostro tocco. Soltanto che inevitabilmente, poiché l’uomo stesso è abitato dall’interiorità, il mondo a un certo punto esplode. Ed esplode sul reale, che è cosa diversa dalla realtà, perché il reale è anche la mia interiorità, non solo ciò che mi esterno ed estrinseco. Lacan lo spiega con una di quelle definizioni che solo i geni sanno dare: «Il mondo è ciò che va, il reale è ciò che non va». Ovvero il reale è il riconoscimento che il soggetto non è mai il proprietario della propria esperienza, che l’esperienza è sempre la tua esperienza soggettiva ma non è mai una tua proprietà.
La sociologia contemporanea parla di non-luoghi. Agganciandoci alla sua riflessione, possiamo dire che quelli sono non-luoghi perché lì l’uomo non crea il suo mondo, si tratta di spazi indifferenti all’individuo che li abitano?
Io capisco che i sociologi parlino di non-luoghi per indicare i luoghi di passaggio, impersonali, però come filosofo devo dire che il non-luogo non esiste. Perché anche quello che è definito come non-luogo in realtà è sempre un luogo abitato da un uomo. Cito un film, Irina Palm: c’è una nonna che per mettere insieme i soldi per curare il nipote fa un lavoro squallido, masturba gli uomini. Lei è in una stanza terribile, in un non-luogo, però dopo pochi giorni porta un quadro con la foto del nipote e un mazzo di fiori. Cosa sta facendo Irina Palm? Inizia ad abitare. Anche nelle stazioni ogni pendolare ha il suo posto, prende il treno sempre dallo stesso punto della banchina, e pure nel massimo dell’informalità come un campo rom ciascuno crea un suo spazio. Ci sono testimonianze terribili e meravigliose in questo senso nei campi di concentramento nazisti: si racconta di una mamma che a un certo punto sbotta e rimprovera il figlio, «Smettila, non si mangia con le mani!». Ed il piatto era quasi del tutto vuoto! Per me questo è l’umano. Certo, ci sono circostanze che facilitano e circostanze che si oppongono all’abitare.
Però se l’abitare è un modo dell’io di plasmare il mondo, è anche vero che il modello di stare nello spazio che ci è proposto o imposto a livello sociale non è quello dell’abitare inteso come mettere una persona al centro dello spazio. Cosa ci dice allora dell’umano il fatto che le città che lui stesso crea sono ormai città che producono sofferenza?
Innanzitutto dobbiamo dire che anche le nostre città, che ci sembrano spesso così alienate e alienanti, sono in realtà dei luoghi e non dei non-luoghi. Certo però bisogna capire qual è la preoccupazione prima di questi luoghi: voglio citare la Genesi, per spiegarmi. La Genesi dice che Dio fa il giardino e vi pone dentro l’uomo perché lo coltivi e lo custodisca. Due cose insieme, coltivare e custodire. Cosa fa invece la società di oggi? A me sembra che la nostra è una società che spinge al coltivare e dimentica il custodire. Queste città che generano sofferenza sono dei luoghi, non è la giungla, ma sono probabilmente luoghi mossi da una sola preoccupazione, il consumismo, che curva lo spazio e lo organizza secondo le sue esigenze. L’ideale della vita invece sarebbe il coltivare che custodisce.
Torniamo alla casa e ai suoi tre capovolgimenti: la tana, la casa sempre aperta e il business.
Il tema di partenza è che la casa è ciò che si chiude per riparare: dalle intemperie, dagli estranei, dai nemici. E si chiude intorno a un’apertura, per cui una casa non può mai essere totalmente chiusa; però non può essere nemmeno totalmente aperta. Io ho fatto questa lezione al Politecnico, alla fine è venuta una ragazza e mi ha detto: «Professore, è molto bello quello che ha detto, però i miei genitori facevano ospitalità continua, io tornavo a casa e non sapevo chi aspettarmi, a volte andavo in camera mia e mi trovavo un’estranea con cui dovevo condividere la stanza. Per me è stato impossibile, non si può vivere così». È giusto, ha ragione lei. Bisogna imparare la differenza fra l’ospitalità assoluta e l’ospitalità piena. L’uomo non può vivere sempre nell’aperto, ha bisogno di un luogo in cui trovare la propria intimità, raccogliersi, stare nudo con sé e con l’altro. Le stanze sono questo, una casa nella casa. Quello di una casa totalmente aperta è un rischio, una tentazione, anche se forse meno immediato da cogliere di quello della casa blindata o cablata, della tana che si trasforma in una trappola. Kafka nel suo racconto è stato un genio, perché il sibilo che l’animale sente e da cui vuole ripararsi, lo continua a sentire anche dentro la tana: torniamo ancora al tema dell’alterità. Tu puoi blindare tutto, ma anche allora resta il fatto che tu sei abitato da un’alterità. Però anche una casa tutta aperta non è un luogo dell’umano: l’ospitalità autentica, la giusta misura, è quella dell’ospitalità piena ovvero di un’ospitalità rivolta alla totalità di una persona, che deve salvaguardarne anche l’intimità.
Questo che indicazioni ci dà sul tema sociale dell’accoglienza?
Rispondo filosoficamente, ma poi nella vita so che è diverso. Filosoficamente dico che c’è il rischio di una perversione dell’ospitalità, perché l’ospitalità vera è l’ospitalità alla totalità della mia persona. L’ospitalità assoluta invece, che è una perversione, è paga di ospitare, è indifferente a chi sta ospitando, chiunque va bene. Invece l’ospitalità piena è un’ospitalità a me, al mio io particolare e individuale. Filosoficamente quindi ci può essere un pericolo per le strutture che fanno accoglienza e ospitalità, detto bene da Derrida: «Si può donare con generosità, non per generosità». Nel primo caso sei in gioco tu, nel secondo è una procedura. Poi è chiaro che realisticamente dobbiamo dire “per fortuna c’è anche qualcuno che fa accoglienza anche solo per procedura!”. Nella realtà bisogna stare attenti a non separare le cose, perché l’ospitalità a te è certamente anche l’ospitalità ai tuoi bisogni, ma non solo quello.
Nelle letture che analizza nella seconda parte di Capovolgimenti fa una riflessione sul fatto che, nella Genesi, la domanda di Dio all’uomo è sempre «Dove sei?». Perché mettere in primo piano il luogo?
Perché l’alternativa sarebbe la domanda «Chi sei?». Quella però è una domanda troppo grande, vertiginosa, chi sa rispondervi? Alla domanda «Dove sei?» invece possiamo sempre rispondere, perché ci chiede quale posizione stiamo assumendo rispetto alla vita e alle cose, ci chiede «Dov’è il tuo cuore?». Noi non sappiamo chi siamo ma sappiamo sempre che posizione abbiamo, e alla fine si tratta sempre solo di due grandi possibilità: o che la vita sia un’illusione o che la vita sia una promessa. Adamo risponde giusto: sono nella paura. Il luogo da cui guardo il mondo adesso è la paura.
Una bella metafora dell’oggi…
La questione è questa. Un’amica una volta mi ha chiesto: «Scusa, ma cosa avrebbe dovuto rispondere Eva al serpente, quando le ha promesso che sarebbe diventata come Dio?». Ci ho pensato, e secondo me Eva avrebbe dovuto rispondere che lei non voleva diventare “come”Dio, perché era già “con” Dio. Io sono un uomo, sono limitato, ma sono in alleanza con Dio. Nel momento però in cui il serpente riesce a togliermi dalla relazione e dall’alleanza con Dio – ma non solo, anche con l’amato, il fratello, l’amico – il mio limite mi diventa insopportabile. La paura nasce da quello, dall’insostenibilità del limite, che è un grandissimo tema dell’oggi: questa è un’epoca in cui le possibilità sembrano illimitate e accessibili a tutti, e il rendersi conto di essere limitati è percepito come qualcosa di ingiusto e intollerabile. Il limite invece non è un’obiezione, ma una condizione normale. Ma dentro una relazione. Il fatto è che fuori dalla relazione con l’altro diventa un’obiezione a me stesso e alle mie possibilità e anche una tentazione: la tentazione a rompere la relazione, a isolarsi.
Partendo dalla casa lei rilegge anche l’economia, che etimologicamente è oikos nomos, la legge della casa: un concetto diverso dal business, che invece è una cosa irrelata.
L’economia è trovare la giusta misura all’interno della casa, ovvero quella che rispetta chi abita nella casa. Se lavori otto ore al giorno per mille euro e ti propongono di lavorare 16 ore per 3mila euro, questa dal punto di vista del business è una scelta che conviene, ma dal punto di vista dell’economia è distruttiva. In questo senso il business diventa distruttivo della famiglia. Qual è la conseguenza politica? Che lo Stato deve aiutare l’economia e l’imprenditore, non il business. Incentivare il part time e le iniziative di conciliazione fra vita e lavoro per esempio è una scelta nell’ottica dell’economia, non del business.
C’è una frase molto forte, nel libro. «Ogni uomo è posto dinanzi all’urgenza di individuare qual è il modo migliore di abitare». Qual è a suo parere il modo migliore di abitare?
Non lo so e non si deve sapere, però so che l’uomo non può non sentire l’urgenza di cercare la giusta misura, poiché non esiste una zona moralmente neutra. In più quello della giusta misura non è un compito riservato ad alcuni uomini, bensì un compito per tutti gli uomini, perché è questo che definisce l’uomo. Quindi per prima cosa è importante convincere i ragazzi che non esiste il moralmente neutro. Poi il giusto dipende dalle circostanze, come quando le suore di madre Teresa a Calcutta dicono che la loro priorità è insegnare l’uso dei contraccettivi e non vivono come scandalo il fatto che la Chiesa dica altro. Il tema di un abitare che rispetti l’ambiente per noi è imprescindibile. Ma il rischio pazzesco è che per la prima volta si profila la possibilità di generare senza sessualità. Qual è la giusta misura? Ecco, adesso rispondo: per noi è custodire la vita nel rapporto carnale fra l’uomo e la donna, senza bypassarlo.

 

 

 

 

sabato 28 marzo 2015

  CO-HOUSING SOCIALE: 

UNA COMUNITA' CHE CURA


Da circa un anno e mezzo a Milano c’e un nuovo complesso abitativo, composto da più di 120 unità: si chiama Cenni di Cambiamento, in zona via Novara. Poco più ad ovest, continuando sulla via Novara, si incontra Figino, un quartiere di Milano che mantiene ancora caratteristiche da piccolo paesino. Lì, tra pochi mesi, verrà inaugurato un nuovo intervento di housing sociale, sulla falsa riga del modello Cenni, denominato Borgo Sostenibile e composto da più di 300 alloggi.
Questi due importanti progetti di Social Housing sono il frutto dell’incontro tra soggetti pubblici e privati: Comune di Milano, Fondo Immobiliare di Lombardia, FHS, Fondazione Cariplo, Dar=Casa/Cooperativa Degradi, che ha generato un sistema di “mixed development” dove l’incontro tra la varietà di bisogni legati allo spazio abitativo ha fatto da motore in grado di produrre opportunità.
Analizzando l’esperienza di “Cenni”, notiamo che il sistema è stato facilitato da azioni ed interventi specifici, che hanno avuto la funzione di creare le condizioni perché nascessero relazioni che, partendo dai presupposti dell’housing sociale, si estendesse fino a diventare tipiche del co-housing: l’esistenza di spazi comuni, i percorsi di conoscenza tra gli abitanti prima della consegna degli alloggi, la presenza di organizzazioni no profit, un mix di contratti di affitto e patti di futura vendita, la diversa composizione dei nuclei familiari.
In questo articolato e creativo contesto abitativo – relazionale si è avviato, a ottobre 2014, il progetto di Arimo, legato al servizio di appartamenti educativi “Chiavi di Casa”, dedicato ai neo maggiorenni seguiti dai servizi sociali. Questa tipologia di dispositivo educativo ha la caratteristica di essere uno luogo di mezzo tra la comunità di accoglienza, caratterizzate da un tasso di protezione, controllo e presenza educativa molto elevato, e il mondo della realtà, privo ovviamente di tutele, monitoraggi e sostegni adulti. Il contesto di co-housing rappresenta “magicamente” quel luogo capace di tenere in equilibrio artificialità e autenticità. L’artificialità tipica e fondamentale di ogni intervento educativo, con l’autenticità necessaria perché ogni intervento educativo diventi efficace e replicabile. La presenza di condomini spontaneamente portati all’incontro con l’altro, e connessi con Arimo attraverso un lavoro di “regia” relazionale svolto dagli operatori, facilita in modo quasi invisibile il contatto con gli ospiti, lasciato sempre però alla singola iniziativa.
Questo sistema complesso e articolato, ma al tempo stesso estremamente naturale e immediato, genera opportunità e circostanze di incontro e aiuto reciproco, che mai potrebbero verificarsi in un qualsiasi condominio, soprattutto pensando a giovani ragazzi, poco inclini alla fiducia verso gli estranei e caratterizzati da cautela nell’avvicinarsi all’altro.
Andare in corte la sera a giocare a ping-pong; chiedere una pentola o del riso al vicino di pianerottolo; cercare via Facebook un aerosol in prestito e trovarlo da Carmen, senza neanche sapere chi è; fare i compiti con Riccardo o andare a cena da Marta, Luca e le loro figlie; fare volontariato al piano di sotto dove vivono persone con difficoltà motorie, sono solo alcune delle possibilità a portata di mano degli ospiti di Arimo (e di tutti gli abitanti di Cenni). E sono occasioni preziose, uniche, irrinunciabili per occuparsi in modo silenzioso e nascosto delle ferite provocate da un passato di incontri con una realtà violenta, maltrattante, invadente.
Una cura che passa da uno sguardo semplice, bendisposto, inclusivo, che ha l’impagabile valore di non essere viziato da un sapere professionale, ma di rappresentare lo sguardo di un mondo possibile, esistente, reale. Non frutto di un curriculum di chi “sa come si fa”, ma di competenze naturali di chi “sa essere”. Facilitata dall’appartenenza ad un territorio comune e da un vicinato che combatte solitudine e anonimato, quest’esperienza di incontro con l’altro, se diventa apprendimento, si trasforma in competenza trasferibile ad ogni “altro” ovunque lo si trovi nel mondo. Un mondo che non produce più il danno ma la cura. Naturalmente, spontaneamente, senza titolo professionale.
In un contesto di abitare così pensato, e già sperimentato a Cenni di Cambiamento, Arimo ha deciso di rilanciare la sua sfida di apertura al territorio con un nuovo progetto di residenze educative. Questa volta non solo dedicato ai neo maggiorenni ma anche ai suoi ospiti minorenni, così da anticipare quei movimenti di contatto con un contesto collaborativo, capace di ristrutturare esperienze distruttive e deteriorate. Con il progetto Borgo Sostenibile parte una nuova avventura dove il professionista della cura cede spazi di intervento a favore del cittadino consapevole, non abbandonando la scena educativa ma arricchendola di nuovi attori e immaginando azioni di invisibile regia che “apparecchino le circostanze” per nuove prospettive di crescita nel mondo.
Testi di



giovedì 26 marzo 2015

ECOVILLAGGI CHE PASSIONE, SUCCESSO PER LA RETE ITALIANA

L'associazione Rive, che riunisce le esperienze di abitare sostenibile ed ecologico, in meno di vent'anni ha quintuplicato il numero dei villaggi aderenti. E sostiene anche esperienze di co-housing sociale. Ecco la mappa italiana
Una nuova presidente e una più massiccia presenza sui social network: così si espande in Italia la rete degli eco villaggi, luoghi dove sempre più persone scelgono di vivere per seguire i principi della sostenibilità, del consumo responsabile e soprattutto della condivisione. Sono decine le realtà di questo tipo attive in Italia (nella mappa di Google ne vengono censiti 89), e e circa un quarto di loro aderisce all’Associazione RIVE (Rete Italiana Villaggi Ecologici) - un coordinamento di comunità, ecovillaggi e singole persone interessate ad esperienze di vita comunitaria – che raccoglie esperienze molto diverse tra loro e che dopo molti anni di presidenza di Mimmo Tringale, direttore della rivista AMM Terra Nuova, è ora guidata da Francesca Guidotti.
Un sodalizio che ha visto una crescita notevole dal 1996, quando sorse grazie all’impegno di sole quattro realtà di eco villaggio (Torre Superiore, Comune di Bagnaia, Damanhur e Popolo degli Elfi) mentre oggi annovera 23 esperienze, soprattutto nel Centro Nord; scelte molto differenti tra loro, alcune con un taglio politico molto marcato, altre che si basano su una profonda spiritualità, ma unite dalla volontà di condivisione di una scelta mirata ad andare oltre il “vivere” tradizionalmente inteso. Ma guai a pensare che questi luoghi siano riservati a nostalgici fricchettoni o, nella migliore delle ipotesi, a ingenui sognatori.  «Non ci si può approcciare al tema dell’ecovillaggio in maniera semplicistica», chiarisce Francesca Guidotti, presidente della Rive. «Trovare quello adatto a se stessi è come trovare un “luogo dell’anima”, bisogna prima di tutto visitarlo e poi viverlo il tempo necessario per capire qual è lo stile di vita e se si conforma alla nostra personalità».
E chi non se la sente di mollare tutto e abitare in case di legno senza elettricità, troverà anche altre soluzioni meno drastiche: RIVE supporta infatti anche altre forme di abitare sostenibile, come l’Associazione culturale Senape che sta lavorando alla proposta di un progetto di recupero e ristrutturazione delle ex caserme del comune di Imperia per uso pubblico e sociale, o le varie esperienze di cohousing sociale, una forma particolare di vicinato dove viene preservata la privacy degli spazi abitativi ma vengono condivisi molti spazi relativi ai servizi comuni.
È una scelta – si legge nel sito ItaliaCheCambia - che permette di superare «l’isolamento tipico dei condomini rispondendo ad una serie di questioni pratiche del vivere con una sorta di “welfare” personalizzato, ma è una struttura molto diversa rispetto a quella degli eco villaggi». La prima esperienza di cohousing è sorta nel 1972 in Danimarca, negli anni successivi si è propagata nei vicini stati scandinavi e negli anni ’80 gli enti pubblici hanno riconosciuto questa esperienza a livello ufficiale. Oggi si contano migliaia di esperienze in tutto il mondo e anche in Italia sono registrate nella rete otto realtà, di cui due in grandi città come Torino e Milano.
Nella foto: alcuni abitanti dell'Ecovillaggio Torri Superiore, presso Ventimiglia

sabato 21 marzo 2015

GENERAZIONE MILLE EURO - FUTURO IN CASA PROPRIA O PARCHEGGIO PER ANZIANI!?


Oggi giovani precari, domani anziani poveri: il 65% andrà in pensione con meno di mille euro

La «generazione mille euro» avrà ancora meno a fine carriera. Con pensioni molto basse, in caso di non autosufficienza chi pagherà le badanti per tutti? Il futuro grigio dei giovani in un Paese che invecchia

Padova, 13 febbraio 2015 - La «generazione mille euro» avrà ancora meno a fine carriera. Oggi il 40% dei lavoratori dipendenti di 25-34 anni ha una retribuzione netta media mensile fino a mille euro. E in molti si troveranno ad avere dalla pensione un reddito più basso di quello che avevano a inizio carriera. L'invecchiamento della popolazione e le riforme pensionistiche rendono più complesso il quadro delle variabili che incidono sulla longevità, per cui il Censis e la Fondazione Generali hanno avviato un percorso di ricerca sul welfare di domani. Il Censis stima che il 65% dei giovani occupati dipendenti 25-34enni di oggi avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti, considerando l'abbassamento dei tassi di sostituzione. E la previsione riguarda i più «fortunati», cioè i 3,4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard. Poi ci sono 890.000 giovani 25-34enni autonomi o con contratti di collaborazione e quasi 2,3 milioni di Neet, che non studiano né lavorano. Se continua così, i giovani precari di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani. È quanto emerge dalla ricerca realizzata dal Censis in collaborazione con Fondazione Generali.

Il regime contributivo puro cozza con la reale condizione dei millennials. Il 53% dei millennials (i giovani di 18-34 anni) pensa che la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro. La loro pensione dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi presto e con continuità. Ma il 61% dei millennials ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perché sono rimasti spesso senza lavoro o perché hanno lavorato in nero. Per avere pensioni migliori, l'unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata, allo sfinimento. Ma il mercato del lavoro lo consentirà? Intanto l'occupazione dei giovani è crollata. Siamo passati dal 69,8% di giovani di 25-34 anni occupati nel 2004, pari a 6 milioni, al 59,1% nel 2014 (primi tre trimestri), pari a 4,2 milioni. In dieci anni, ci sono stati 1,8 milioni di occupati in meno tra i giovani, con un crollo di 10,7 punti percentuali. Una perdita di occupazione giovanile che, tradotta in costo sociale, è stata pari a 120 miliardi di euro, cioè un valore pari al Pil di tre Paesi europei come Lussemburgo, Croazia e Lituania mesi insieme.

A far paura non è l'invecchiamento, ma il rischio di perdere l'autonomia. Solo il 35% degli italiani ha paura di invecchiare: il 15% combatte gli effetti dell'invecchiamento e il 20% si rassegna. Il 65% invece non teme l'invecchiamento: perché lo considera un fatto naturale (53%) o perché pensa che invecchiando si migliora (12%). A far paura è la perdita di autonomia. Pensando alla propria vecchiaia, il 43% degli italiani giovani e adulti teme l'insorgere di malattie, il 41% la non autosufficienza. E il 54% degli anziani fa coincedere la soglia di accesso alla vecchiaia proprio con la perdita dell'autosufficienza, il 29% con la morte del coniuge e il 24% con il pensionamento. La fragilità legata all'invecchiamento terrorizza i giovani. Pensando a quando saranno anziani e bisognosi di cure, il 32% di giovani e adulti si preoccupa perché non sa bene che cosa accadrà, il 22% è incerto e disorientato, e solo il 16% si sente tranquillo, perché si sta preparando a quel momento con risparmi e polizze assicurative, o semplicemente conta sul supporto della propria famiglia.

Badanti ok oggi, ma domani? In casa propria, accuditi dai familiari o da una badante: è questo oggi il modello di assistenza agli anziani non autosufficienti. Le badanti sono più di 700.000 (di cui 361.500 regolarmente registrate presso l'Inps con almeno un contributo versato nell'anno) e costano 9 miliardi di euro all'anno alle famiglie. Finora il modello ha funzionato, per il futuro però potrebbe non essere più un servizio low cost. Sono 120.000 le persone non autosufficienti che hanno dovuto rinunciare alla badante per ragioni economiche. Il 78% degli italiani pensa che sta crescendo la pressione delle badanti per avere stipendi più alti e maggiori tutele, con un conseguente rialzo dei costi a carico delle famiglie. Per tanti l'impegno economico diventa insostenibile: 333.000 famiglie hanno utilizzato tutti i risparmi per pagare l'assistenza a un anziano non autosufficiente, 190.000 famiglie hanno dovuto vendere l'abitazione (spesso la nuda proprietà) per trovare le risorse necessarie, 152.000 famiglie si sono indebitate per pagare l'assistenza. E sono oltre 909.000 le reti familiari che si «autotassano» per pagare l'assistenza del familiare non autosufficiente. E anche quando si ricorre alla badante, l'85% degli italiani sottolinea che è comunque necessario un massiccio impegno dei familiari per coprire giorni di riposo, festivi, ferie, ecc.

Quando la casa diventa una trappola per gli anziani. Sono 2,5 milioni gli anziani che vivono in abitazioni non adeguate alle loro condizioni di ridotta mobilità e che avrebbero bisogno di interventi per essere trasformate. E sono 1,1 milioni quelli che vivono in case inadeguate ma non adattabili alle esigenze di una persona anziana con problemi di mobilità. In questi casi rimanere in casa può diventare un boomerang.

Le residenze per anziani? Purché non siano parcheggi per vecchi. Oggi le residenze per anziani (case di riposo e simili) non piacciono agli italiani. Sono ospiti di strutture residenziali 200.000 anziani non autosufficienti, mentre 2,5 milioni vivono in famiglia, in casa propria o di parenti. Le residenze per anziani oggi non hanno appeal perché sono solo parcheggi per vecchi che provocano malinconia. Ma 4,7 milioni di anziani sarebbero favorevoli ad andare in residenze se la loro qualità migliorasse. Il 55% di loro pensa che una buona residenza per anziani deve garantire l'accesso rapido alle cure sanitarie e infermieristiche in caso di bisogno, per il 36% deve mostrare una sensibilità speciale per il lato umano degli ospiti, per il 27% deve favorire l'apertura verso l'esterno con attività alle quali possono accedere anche persone da fuori, per il 23% deve disporre di spazi comuni in cui realizzare attività ricreative che incoraggino le relazioni tra gli ospiti. In Italia esistono esempi virtuosi di residenzialità per longevi, tra cui il Civitas Vitae della Fondazione Opera Immacolata Concezione di Padova, prima infrastruttura di coesione sociale in Italia fatta di strutture e servizi intergenerazionali, piena apertura al territorio con accesso ai suoi servizi per tutti i cittadini, impegno di longevi attivi, intenso uso di nuove tecnologie Ict.

Questi sono i principali risultati della ricerca «L'eccellenza sostenibile nel nuovo welfare. Modelli di risposta top standard ai bisogni delle persone non autosufficienti», realizzata dal Censis in collaborazione con Fondazione Generali, che è stata presentata oggi a Padova da Francesco Maietta, Responsabile del settore Politiche sociali del Censis, e discussa da mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, Angelo Ferro, Presidente della Fondazione Opera Immacolata Concezione, Marco Imperiale, Direttore Generale della Fondazione con il Sud, Mario Strola, Segretario Generale della Fondazione Ferrero, Luca De Dominicis, Head Savings and Pensions Global Life di Assicurazioni Generali, e Giuseppe De Rita, Presidente del Censis.



COMUNICATI STAMPA


SENIOR COHOUSING IN TRENTINO: L'ESPERIENZA DI CASA ALLA VELA




L'abitare collaborativo della Cooperativa sociale SAD di Trento: una strada per sviluppare welfare, turismo e opportunità di mercato
  
La Casa alla Vela

In Trentino è nato recentemente un esperimento di cohousing del tutto particolare. Per iniziativa della cooperativa sociale SAD di Trento è stata sviluppata una soluzione di “abitare collaborativo” che coniuga insieme il modello del senior cohousing con una modalità legata alla soddisfazione delle esigenze delle giovani generazioni: una nuova formula di “cohousing intergenerazionale”. È la “Casa alla Vela” che ospita, in un edificio di tre piani recentemente ristrutturato, cinque anziani ultra-ottantenni autonomi anche parzialmente, insieme a sette studenti tra i venti e trent’anni.
L’offerta abitativa riservata agli anziani contempla un loro proprio spazio privato —dotazione che è fortemente compromessa nella generalità delle case di riposo ma che qui, invece, è una prerogativa fondamentale, tipica del cohousing — insieme al beneficio di alcuni spazi condivisi per le attività comuni, in modo che vengano mantenuti l’individualità della residenza e il rispetto dei tempi di vita di ciascuno.
Di grande vantaggio per l’anziano è lo svolgimento delle incombenze quotidiane come l’approvvigionamento dei viveri, la preparazione dei pasti, l’igiene personale, il lavaggio e stiratura degli indumenti, fino alla pulizia degli ambienti comuni, assolte con il supporto di assistenti familiari. Supporto che può estendersi anche alle incombenze di carattere periodico come la gestione amministrativa, le pratiche burocratiche e le piccole manutenzioni.
Il menu quotidiano dei pasti e la preparazione delle pietanze sono oggetto di scelta comune e di partecipazione esecutiva, così come sono condivise la pratica del giardinaggio e la cura dell’orto. Le attività ricreative e gli hobbies, da condividere nel rispetto dell’indole e dell’attitudine di ciascuno degli ospiti, sono predisposti sia da educatori professionali sia da volontari — come gli studenti che, come vedremo meglio poi, abitano l’altro piano del cohousing. Tutte le iniziative sia quotidiane che di varia periodicità puntano alla motivazione dell’anziano, per porlo effettivamente in una condizione di longevità attiva.

Le peculiarità del progetto
Il modello abitativo del cohousing, che la Casa alla Vela sta sperimentando, è rappresentato da alcune dotazioni infrastrutturali e da peculiari modalità organizzative e gestionali:
  1. gli spazi comuni, funzionali alla socializzazione, alla conoscenza interpersonale e al supporto reciproco: la zona living (soggiorno e cucina), il giardino d’inverno interno, l’orto e la grande sa-la sottotetto, destinata ad attività formative e ricreative di entrambe le generazioni ospitate;
  2. i servizi a valore aggiunto, come le attività di mutuo aiuto e di messa a disposizione delle com-petenze di ciascuna fascia di età in una logica di reciprocità;
  3. la condivisione di beni e servizi secondo le logiche della “sharing economy”, in grado di gene-rare benefici economici grazie alla riduzione degli sprechi materiali, al risparmio di energia (gas, elettricità) e al ricorso ad economie di scala — ad esempio, un’unica persona, alternandosi, prepara il cibo per tutti o talvolta ognuno prepara qualcosa e viene allestito un pasto partecipato. A ciò si aggiunge, nella stessa logica, la già citata gestione condivisa degli adempimenti operativi e amministrativi tra i residenti, compiuta con il supporto di professionisti, secondo le necessità;
  4. la divisione delle responsabilità tra i cohousers secondo un’organizzazione non gerarchica, con il coordinamento di un tutor attento alla partecipazione;
  5. la sicurezza conseguente alla garanzia di un ambiente protetto, in contrasto con le paure e le ansietà associate all’isolamento. 
Altri elementi in questo progetto creano valore aggiunto per gli anziani, anche se non sono strettamente riconducibili alle proprietà del cohousing:
  1. l’“ambient assisted living”, attuato con istallazioni di apparecchiature per la rilevazione ambientale (controllo delle fughe di gas, dei rischi d’incendio, della qualità dell’aria, dell’intrusione di estranei, ecc.) e con altre attrezzature per la cura e il monitoraggio della persona (servizi di fall detection, soccorso in emergenza con telesoccorso anche in mobilità, servizi di videochiamata con parenti e amici, e di life-style coaching); il tutto messo a disposizione in via sperimentale grazie al progetto “Suitcase”, sviluppato da una cordata di portatori di competenze tecnologiche, ripartiti tra attori pubblici e privati in Trentino;
  2. l’assenza di barriere architettoniche insieme alla sicurezza e all’ergonomia di elettrodomestici e utensili in dotazione;
  3. la particolare attenzione, posta nella fase di ristrutturazione, verso la sostenibilità ambientale e l’efficienza energetica dell’edificio (materiali isolanti, doppi vetri, ecc.), che comportano una riduzione dei canoni delle utenze a carico dei cohousers;
  4. la presa in carico degli anziani distribuita tra vari soggetti sia a titolo gratuito che a pagamento — in un mix di economia di dono e di economia di mercato — in modo che il supporto fornito favorisca l’autonomia secondo le logiche dell’empowerment. Grazie alla collaborazione con il Centro Servizi per il Volontariato (un ente presente a livello provinciale), ruotano attorno all’anziano operatori del sociale, assistenti familiari sempre presenti nell’abitazione, assistenti a domicilio e operatori sanitari attivabili all’occorrenza, operatori abilitati al trasporto e all’accompagnamento individuale o di gruppo e pure gli studenti e i volontari disponibili ad animare i momenti culturali e ricreativi.

I benefici su invecchiamento attivo e servizi alla persona 
Questo combinato disposto di caratteristiche rende la Casa alla Vela un’esperienza particolarmente innovativa e interessante per la sua eventuale replicabilità, con evidenti benefici:
  • a creazione di una vera e propria “filiera innovativa di sostegno alla persona”, che evita il ricorso a coloro che in famiglia si prendono comunemente cura dell’anziano;
  • la soluzione al problema della discontinuità assistenziale, che può dar luogo alla sindrome di burnout nei caregivers stessi;
  • la promozione dell’autonomia dell’anziano (empowerment), così da arginare in modo sostanziale il fenomeno dell’isolamento e della fragilità in una fascia sempre più estesa di popolazione;
  • la promozione dell’invecchiamento attivo e del benessere psico-fisico che, insieme alla partecipazione attiva alla comunità (engagement), arricchisce il “successful ageing”;
  • il conferimento di senso alla condizione esistenziale della vecchiaia (sensemaking).
Non è un caso che la United Nations Economic Commission for Europe abbia recentemente citato la Casa alla Vela tra le good practice italiane e l’abbia inserita tra i suggerimenti di policy in tema di strategie innovative per l’invecchiamento attivo.

Un'opportunità non solo per gli anziani
Ma oltre a fornire soluzioni agli anziani, la Casa alla Vela offre opportunità di cohousing anche a giovani studenti, per i quali viene messo a disposizione un intero piano della palazzina, indipendente dalla zona riservata agli altri ospiti.
Evidentemente anche a loro si estendono molti dei vantaggi della coabitazione elencati sopra per l’anziano: tra questi, l’avere a disposizione una confortevole mansarda per organizzare eventi ludico-culturali e la possibilità di raccogliere i prodotti freschi dell’orto sono percepiti con un valore aggiunto rispetto all’abitare in uno studentato. Inoltre, esistono per loro anche altri vantaggi che non derivano dal cohousing: l’opportunità di svolgere attività part-time in supporto agli anziani, che si prestano ad essere remunerate dalla SAD con voucher sociali. Quest’ultima sembra essere, peraltro, una caratteristica molto apprezzata; ma quella che i giovani cohousers ritengono soprattutto significativa è legata all’apprendimento sociale, alla comprensione interpersonale e al sapere esperienziale che essi hanno modo di maturare in questa nuova situazione, così diversa dal loro comune contesto di vita, di natura tipicamente mono-generazionale.
Si può ben comprendere, così, come la Casa alla Vela sia un’iniziativa che ha messo in interazione enti, imprese, il volontariato sociale e privati cittadini sulla spinta della cooperativa SAD. Il tentativo di comporre un sistema del genere reclama l’intervento delle istituzioni, ai loro diversi livelli di articolazione nel governo del territorio (comuni, comunità di valle, provincia); tuttavia queste, seppure interessate all’esperienza promossa, non sembrano ancora aver compreso che è richiesto loro un cambiamento radicale, nella forma di un vero e proprio “salto di paradigma”: passare dalla logica amministrativa dei miglioramenti normativi incrementali ad un approccio verso le politiche sociali secondo un nuovo modello organizzativo e gestionale, come quello del secondo welfare. È pure necessario un coordinamento degli attori sulla scena, funzione che potrebbe essere appannaggio di un tavolo multilivello dedicato, oltre che alla divulgazione e al confronto, anche a promuovere l’integrazione delle numerose iniziative in corso, in modo da ridurre la dispersione delle energie. SAD si prefigge di replicare l’esperienza della Casa alla Vela, ma per farlo ha bisogno del supporto della finanza sociale e della filantropia d’impresa, le quali vanno innestate lungo una filiera virtuosa che è compito della pubblica amministrazione dispiegare nelle migliori forme con l’apporto degli attori interessati, provenienti dalle istituzioni, dal mercato e dalla società civile.

Senior cohousing, secondo welfare e innovazione sociale
Stato, mercato, Terzo settore e famiglie sono le arene coinvolte nella produzione sociale del welfare. Oggi sono tutte attraversate dalla stessa crisi, il cui superamento richiede soluzioni partecipate, frutto della composizione delle separazioni settoriali e della collaborazione tra i vari attori.
In effetti, le trasformazioni in atto nel Paese stanno facendo emergere una nuova configurazione di welfare nella quale gli stakeholders che appartengono alle quattro arene fanno rete e insieme producono programmi e iniziative congiunte, contraddistinte dalla condivisione di risorse finanziarie e progettuali. Il “Secondo welfare” scaturisce proprio da questa più stretta collaborazione fra Stato, mercato, privato sociale e cittadini, che collaborano per produrre in modo sinergico soluzioni e risposte per il benessere di individui e famiglie, ossia dei destinatari degli interventi. Nel nuovo modello il welfare pubblico conserva la sua funzione redistributiva di base, ma viene integrato quando vi sono domande non soddisfatte di tutela e di servizi alla persona o alle famiglie.
Poiché il passaggio di funzioni da sempre peculiari del welfare pubblico alla nuova formula del secondo welfare avviene attraverso un intervento sussidiario di attori diversi dallo Stato — tra gli altri, in un ruolo rilevante, l’impresa sociale — quest’ultimo viene alleggerito dalle molteplici pressioni sociali che sempre più gli gravano addosso. La sussidiarietà che ha modo di svolgersi trasferisce poteri e responsabilità dal centro alla periferia e, soprattutto, dal soggetto pubblico ai corpi intermedi della società, che vedono valorizzate le proprie iniziative grazie all’integrazione con le strategie pubbliche di welfare.
Osservato dalla particolare angolatura del secondo welfare, il senior cohousing si presta ad esserne uno strumento congruente se viene adoperato rispettando due condizioni essenziali:
1) dare rilievo alla dimensione sociale dell’iniziativa abitativa, così da rispettare la prassi del coinvolgimento diretto e attivo dei futuri residenti sia durante le fasi di progettazione e realizzazione, che nella gestione successiva;
2) fare ricorso ad una partnership pubblico-privato (PPP) per lo sviluppo del progetto, in modo che l’iniziativa privata non si sostituisca semplicemente a quella pubblica, ma si aggiunga a quest’ultima nel quadro di un programma che ne contempla l’integrazione economica e operativa.
Quando si realizza nell’ambito della partecipazione pubblico-privato, il senior cohousing corrisponde a una forma di forte innovazione sociale. Le iniziative che avvia e i risultati che ottiene danno una risposta a bisogni emergenti delle persone e delle comunità grazie a nuove modalità di collaborazione fra attori sociali e a nuovi schemi d’azione.
La crisi irreversibile in cui versa il modello di welfare tradizionale, collegata alla riduzione delle risorse disponibili e all’emergenza di nuove forme di bisogni relazionali, richiede un cambiamento nella lettura di tali bisogni e nella predisposizione delle risposte, di consistenza e portata tali da non accontentarsi di un semplice re-engineering organizzativo e normativo. Sembra auspicabile un mutamento del sistema di equilibrio attuale verso un nuovo assetto, in una sorta di “distruzione creatrice” che affermi nuove concezioni e nuove pratiche di rilievo sociale, culturale ed economico, frutto della combinazione originale di elementi già esistenti.
Nella fase iniziale, un cambiamento del genere potrebbe essere appannaggio di minoranze attive che svolgono la funzione di “early adopters”, vocate ad aprire per prime la strada ad un orientamento collettivo della società intera, la quale seguirebbe quei passi solo successivamente. In Italia, infatti, i progetti di cohousing già realizzati in questa fase pioneristica, così come i diversi tuttora in corso d’opera, hanno preso avvio grazie al coinvolgimento progressivo di gruppi, di comunità di pratiche, di sistemi locali e di reti trans-territoriali. Ma il cohousing come politica sociale innovativa e come sistema di buone pratiche attende istituzioni virtuose e sensibili a vario livello, meglio se vicine ai bisogni del territorio, che inizino a rispondere alle aspirazioni di cittadini attivi e a creare opportunità per questa nuova modalità di abitare.

Il Trentino come laboratorio di secondo welfare
Le differenze tra il nostro Paese e gli stati nord europei nei quali il cohousing ha trovato un’estesa attuazione sono evidenti. La presenza di modelli familiari tradizionali e di forme di proprietà classiche dell'abitazione rende sicuramente la sfida più complessa. Nonostante queste condizioni avverse, in Italia il cohousing ha comunque fatto la sua comparsa. Sono state realizzate comunità in Emilia Romagna, nella provincia di Torino, a Milano e in altre località del nord. Molti progetti sono in via di definizione e si è ramificata la “Rete nazionale per il cohousing e l’abitare solidale”, che raccoglie sia le associazioni per lo sviluppo di progetti abitativi comunitari che gruppi di cohousers.
È interessante, dunque, capire se il senior cohousing può trovare spazio in una realtà come il Trentino. Anche in Trentino, regione a tradizione cattolica caratterizzata da forti legami familiari, il prolungamento della terza età sperimentato insieme alla crisi economica sta facendo emergere un fenomeno — rilevato dagli operatori sociali — di ritorno delle donne al ruolo di accudimento a tempo pieno dei genitori anziani, svolto spesso parallelamente a quello di caregiving nei confronti della famiglia acquisita. Nella maggior parte dei casi, prendersi cura a tempo pieno dell’anziano fragile non è una scelta ma una necessità di fronte alla mancanza di alternative concrete, coordinate ed efficaci, delle quali il senior cohousing potrebbe rappresentare un esempio risolutivo, in Trentino ora come nei paesi scandinavi già oltre quarant’anni anni fa.
Peraltro, nella Provincia autonoma di Trento esiste un’offerta strutturata di assistenza domiciliare, caratteristica che potrebbe facilitare la diffusione di questo modello abitativo a vantaggio dei pensionati residenti. A ciò si aggiunga che le località trentine risultano ai primi posti nelle classifiche per la qualità della vita e che il territorio presenta caratteri che lo qualificano come destinazione turistica di rilievo; dunque, se guardato in una prospettiva di medio-lungo periodo, il Trentino può diventare una destinazione attrattiva a livello nazionale e internazionale anche per pensionati non residenti all’insegna del benessere e della longevità attiva, a patto che venga sviluppata una pianificazione territoriale lungimirante, che contempli strategie di sviluppo e di marketing territoriale appositamente predisposte.
Questo nuovo stile abitativo può ben fare da volano alla ripresa di molti settori economici che ruotano attorno al benessere della persona e può generare sviluppo in molteplici ambiti come quello sociale — con i suoi percorsi di secondo welfare —, quelli sanitario, alberghiero, turistico e del leisure. Ne beneficerebbero anche l’edilizia e l’artigianato, per la ristrutturazione e la riconversione del patrimonio abitativo esistente e per la riqualificazione energetica degli immobili.
Infatti, il territorio trentino è ampiamente dotato di strutture immobiliari che potrebbero essere riconvertite in modo mirato in cohousing. Proprio a causa della crisi, anche i suoi centri abitati ospitano locali inutilizzati che, attraverso l'impegno dell’ente pubblico, potrebbero interessare progetti di riqualificazione edilizia e di rigenerazione urbana da coniugare con l’aiuto sociale, da un lato, e con lo sviluppo economico sostenibile, dall’altro. Proprio la trasformazione di realtà immobi-liari dismesse in comunità abitative di tipo cohousing consentirebbe di attivare nuove opportunità di mercato.
Ciò considerato, si può sostenere che in Trentino esistano le condizioni, reali e potenziali, a livello socio-culturale, istituzionale, politico ed economico affinché il territorio diventi sede di iniziative di senior cohousing concepite come supporti allo sviluppo della longevità attiva. Pertanto, è davvero fondamentale che il settore pubblico riveda secondo questa nuova prospettiva la propria pianificazione sociale e abitativa, nonché le politiche di investimento delle risorse pubbliche destinate al social housing.



ABITARE


…il condominio, il quartiere, la città…



 
Abitare secondo Heidegger  “vuol dire coltivare e custodire il campo”. L’abitare non coincide semplicemente con il costruire una casa, con l’erigere un edificio. Il tratto fondamentale dell’abitare è l’aver cura. L’esistenza e la vita sono da custodire, oltre che coltivare, proprio perché altre, proprio perché si impongono come altre, come manifestazioni di un’alterità irriducibile. La vita si configura sempre come altra si presenta sempre come forma dell’alterità. L’alterità non è solo il marocchino della porta accanto. L’alterità abita anche il rapporto con i prossimi, con i conosciuti, con le persone di casa. In tal senso siamo chiamati a coltivare e custodire l’alterità, ovunque essa si manifesti. L’alterità riguarda sicuramente lo straniero, ma riguarda anche la propria moglie, il proprio figlio, la propria figlia e ultimamente se stessi. (Silvano Petrosino – Pensare il presente – Nuova Editrice Berti).

L’altro, raccontato dal filosofo Petrosino, costituisce una componente essenziale della scena umana. Non è possibile farne a meno e non solo perché siamo “costretti” ad incontrarlo, ma perché costituisce un tratto essenziale dell’esistere dell’uomo. La qualità della vita risiede nella qualità della coltivazione e della custodia delle relazioni umane. Non si può sfuggire agli altri senza scappare da se stessi.

Si potrebbe osservare che siamo nel campo della filosofia pura, se non fosse che tale scienza cerca di rivelarci quello che realmente siamo e cosa potremmo fare per elevare il senso del ben-vivere.

A noi, la fantasia, la creatività, la capacità di attuarlo nella quotidianità della scena umana, della nostra città, dei nostri quartieri e perché no dei nostri condomini.

Cosa possiamo fare insieme per rendere la convivenza condominiale uno spazio conviviale e felice? Cosa ne pensate?

Vogliamo aprire uno spazio, un laboratorio. Ci piacerebbe immaginare lo spazio di discussione, come un luogo positivo e propositivo. Sono tanti i motivi per lamentarci dei nostri guai quotidiani, dei problemi relazionali, della qualità della vita. Abbiamo, tuttavia, bisogno di immaginare che possa esistere qualcosa di diverso, di nuovo. Qualcosa in grado di generare speranza. Qualcosa che dipende esclusivamente da noi, per cui nessun altro possa aiutarci se non noi stessi. Qualcosa per cui valga la pena lavorare insieme per “coltivare e custodire” la qualità della vita.

Parliamone!


CONDOMINIO SOLIDALE EQUO SOSTENIBILE


“Gruppi Facebook di condominio”


PERCHE’?
Siamo convinti che dopo la famiglia il secondo luogo di prossimità tra le persone sia il condominio. Spesso la convivenza nei condomini risulta difficile e per qualcuno addirittura impossibile.  

CHI?  
Cohouses “Associazione di promozione sociale” promuove la solidarietà l'armonia la condivisione di idee spazi e opportunità tra persone che abitano nello stesso condominio.  

CON CHI?
La proposta riguardano tutte le persone che abitano un condominio, disponibili a mettersi in gioco e condividere idee passioni e iniziative autogestite per una migliore qualità della vita.  

COSA?  
Abbiamo immaginato che si potesse fare qualcosa per migliorare i rapporti tra persone dello stesso condominio promuovendo la partecipazione e la condivisione attraverso lo stimolo ad aggregarsi in gruppi condominiali: persone vicine che si vedono, s'incontrano si conoscono e insieme sviluppano progetti di coesione.  

COME?  
Siamo partiti dal promuovere l'aggregazione di gruppi sulla piattaforma Facebook per facilitare la conoscenza l'incontro e la collaborazione tra persone vicine per poi proseguire con la facilitazione di incontrii, progetti e iniziative reali.  

QUALI INIZIATIVE?
Tra le iniziative possibili ci sono lo sport, l'attività motoria, le bocce. C’è lo yoga. Ci sono i libri, la cultura, la musica. Ci sono gli acquisti solidali. Attività e spazi per mamme e bambini. L’auto mutuo aiuto tra persone. E perchè no!? c'è anche il controllo di vicinato, magari in collaborazione con l'iniziativa in corso dei comitati di quartiere.

Noi di Cohouses siamo presenti e disponibili a fornire collaborazione, competenze e aiuto purchè le iniziative partano dal basso.
I gruppi condominiali non sono intesi per sostituirsi a nessuno ma solo aiutare a creare opportunità autogestite strutturate e continuative di prossimità. Intendono proporsi come strumenti di solidarietà, equità e sostenibilità per migliorare la qualità della vita. Un nuovo welfare di comunità.


COME PROCEDERE:
1. Iscriversi al “gruppo Facebook di condominio solidale equo sostenibile” dove si abita.
2. Conoscersi meglio, attraverso il gruppo di condominio Facebook, condividendo idee passioni e attività che possono migliorare la vita di relazione tra vicini.
3. Incontrarsi tra persone dello stesso condominio per trasformare le idee in progetti con l’aiuto di facilitatori messi a disposizione da Cohouses "Associazione di promozione sociale".
4. Realizzare attività autogestite con l’aiuto di Cohouses "Associazione di promozione sociale".
5. Condividere la costituzione di un piccolo gruppo condominiale di coordinamento delle attività.


REGOLE:
1. Tutti i residenti nel condominio sono i benvenuti.
2. Ogni persona è portatore di idee, intelligenza e costituisce una risorsa unica per la comunità condominiale.
3. Ogni persona è attore e responsabile del successo delle iniziative. “Ogni opportunità dipende da me e non dagli altri”.
4. Si lavora per migliorare la serenità e l’armonia tra le persone attraverso la collaborazione e la condivisione di idee, iniziative e progetti.
5. Ogni progetto condiviso è il mio progetto.
6. Ogni progetto ha solo le mie gambe e quelle della comunità condominiale.
7. Ogni iniziativa, ogni progetto deve, creare consenso, condivisione, armonia, serenità e benessere tra le persone.
8. Ogni progetto deve essere utile e orientato all’uso responsabile delle risorse della terra, improntato al risparmio e all’inclusione sociale.
9. Ogni comunità condominiale può migliorare le regole senza snaturarne lo spirito.


Il sogno di ogni persona, ogni abitante il condominio è di “rendere il mondo un posto migliore in cui vivere”.
   

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