mercoledì 11 febbraio 2015
COABITARE FA BENE ALLA SALUTE!
Abitare solidale e prendersi cura delle
relazioni sociali è un importante contesto attraverso il quale è possibile
migliorare il nostro stato di salute e di benessere.
Nel 1965,
Lisa Berkman e Leonard Syme, due epidemiologi sociali, decisero di mettersi ad
osservare gli abitanti della Contea di Alameda, in California. Ci tornarono per
altre due volte ad osservarli, nel 1974 e nel 1983, per vedere se qualcosa era
cambiato. Quello che scoprirono, fu che chi stringeva più relazioni, o faceva
parte di associazioni, o si rendeva utile per la comunità, aveva livelli di
salute più alti e viveva di più. Questo studio è conosciuto come Alameda
Study e introduce un nuovo concetto di salute, che l'Organizzazione
Mondiale della Sanità definisce come uno stato di completo benessere fisico,
psichico e sociale e non semplice assenza di malattia. Per la prima volta,
dunque, la salute è un benessere poliedrico, che mette in comunicazione mente,
corpo, relazioni e socialità.
Il luogo in
cui questo tipo di benessere si può esprimere nella sua forma più genuina e
profonda è la casa.
Il cohousing
è una forma un po' strana di casa. Spesso è una casa molto grande, con tante
altre piccole case dentro, ci si vive tutti insieme, ma ognuno ha il suo
spazio. Si condividono spazi, valori, compiti, ideali, ed è una scelta di vita
consapevole di chi di quella salute sta piuttosto bene.
C'è però chi
di quella salute non sta così bene e si ritrova a doverne far fronte in zone di
assistenza, residenze terapeutiche, in sistemi istituzionalizzati chiusi che
non dialogano con l'esterno.
Numerose
ricerche, invece, hanno dimostrato che le comunità intenzionali possono
funzionare meglio di quelle terapeutiche in quanto si fanno luogo di sicurezza
e socializzazione, e surrogato della famiglia istituzionale (Whitley et al.,
2008).
Non si vuole
proporre una sostituzione della coabitazione alle soluzioni cliniche
terapeutiche, che rimangono fondamentali per una gestione completa delle
difficoltà dell'individuo, ma si vuole suggerire una soluzione da valutare e da
considerare nella strada verso il benessere dell'individuo.
Inserire
qualcuno che vive una situazione di disagio, in un contesto di vita quotidiano,
può essere un punto di partenza per mettere nelle mani della persona stessa la
propria cura, lavorando sul ruolo salvifico della relazione e del vicinato,
attivandosi nello scambio e nella presa in cura del proprio ambiente di vita,
rendendosi in grado di comprenderlo e sentirsene parte.
La
convivenza, infatti, permette la nascita di relazioni. Le relazioni facilitano
il rendersi partecipi della propria realtà, attivandosi per questa e aumentando
il proprio livello di empowerment, ossia il grado di controllo di una persona
nelle vicende della propria vita. Questo, influenza il capitale sociale, che è
l'insieme delle relazioni necessarie al funzionamento di una società. Tutti
questi elementi, hanno un effetto così sul benessere e sulla salute
dell'individuo.
Randell e
Cumella, nel 2009, hanno fatto uno studio etnografico sulla comunità di Botton
Village, in Inghilterra, una comunità che garantisce un'abitazione
permanente a più di mille persone di cui circa la metà con ritardo mentale.
Dal loro
studio, gli autori, trovano che i fattori positivi della comunità intenzionale,
sulla salute dei residenti con disabilità, siano rintracciabili in fattori
quali: l'assenza di una subordinazione fra residenti e staff, la facilità di
stringere amicizia con altre persone con ritardo mentale, alti livelli di
occupazione e impegno significativo e un generale senso di comunità.
Botton
Village riprende
gli ideali di Karl König, un pediatra austriaco che fondò il Camphill Movement, un movimento di comunità
terapeutiche intenzionali per persone con bisogni speciali o disabilità. König
(1956) sosteneva che tutte le persone avessero pari valore, in quanto ogni
essere umano è portatore di una personalità interiore sana, indipendentemente
dalle caratteristiche fisiche o dalle disabilità. Di conseguenza, ognuno ha
diritto alla stessa considerazione e alle stesse opportunità di tutti gli
altri, ed ognuno è valutato per il suo contributo alla vita della comunità. La
comunità intenzionale, secondo König, crea una vita per coloro che sono
incapaci di trovare un posto nella competitività del mondo esterno, evitando
però di farsi manicomio.
In Italia,
di queste realtà ce ne sono alcune. Alcune sono in piena città, altre un po'
fuori, alcune si chiamano “solidali”, altre hanno il prefisso “eco-”. Non sanno
tutte di essere cohousing, alcune si dicono “villaggi”, altre “coabitazioni”,
d'altronde, il manifesto della rete del cohousing, non prevede un'integrazione
intenzionale fra persone che stanno piuttosto bene e persone che non stanno
così bene. Il cohousing fa riferimento ad altri principi, come la relazione, il
vicinato, la partecipazione, la mancanza di gerarchie, la socialità,
l'appartenenza ad un luogo, tutti principi che vanno a creare una nuova forma
di cura che parte da un quotidiano nel quale sono possibili le condizioni
perché l'individuo possa far fronte alle sue difficoltà in un modo altro. In
questo modo si creano delle realtà di vita dove non si cura l'altro, ma ci
si prende cura dell'altro, chiunque sia e da dovunque venga, in modo tale
che, come dice Weihs (1988), la diversità diventi una varietà invece di
un'anomalia e che proprio la diversità, piuttosto che l'uniformità, diventi
fondamento della vita sociale sana.
Articolo
scritto da:
Elena Giulia
Massaggia, laureata
in Psicologia Scolastica e di Comunità. L'articolo è un estratto della tesi di
laurea sulla coabitazione come alternativa abitativa per persone in situazione
di svantaggio psicosociale, con un’analisi di caso sul campo della realtà
“Villaggio Solidale” di Mirano (VE).
Contatti:
elena.massaggia@gmail.com
Immagine di
apertura di Andrea Margeri, in arte Selvatico Lapis, https://ecofumetti.wordpress.com/
Note:
König K. (1956) A chapter in community living. In: Farrants, W.
(ed.) (1988). Camphill Villages. The Camphill Press, Danby.
Randell, M., & Cumella, S. (2009). People with an intellectual
disability living in an intentional community. Journal of Intellectual
Disability Research, 58, 716-726
Weihs T. (1988) An appreciation of the village community. In:
Farrants, W. (ed.) (1988). Camphill Villages. The Camphill Press, Danby., pp
17-19
Whitley, R., Harris, M., Fallot, R., & Wolfson Berley, R. (2008). The
active ingredients of intentional recovery communities: Focus group evaluation.
Journal of
Mental Health, 17(2),
173-182
di Elena
Giulia Massaggia
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