Johnny Dotti
Imprenditore sociale
La grave crisi che stiamo attraversando, così densa
di rischi ed incognite e che probabilmente non lascerà niente com’era prima che
iniziasse, può rappresentare “un’opportunità per dare una svolta nel senso del
cambiamento al modello sociale che finora abbiamo sperimentato” (Albert
Einstein), permettendo al principio di sussidiarietà e a quello di solidarietà ,di
farsi prassi buona, concreta e diffusa, e valorizzando le importanti risorse
materiali e immateriali che esistono nel nostro Paese. E che esistono anche in
una città come Bergamo.
Sinteticamente possiamo delineare la crisi con
quattro facce. Politica, Economica, Sociale, Antropologica.
Sul versante politico e’ evidente da tempo come la
democrazia sia alla ricerca di nuove dimensioni che ne rianimino la
partecipazione . Voto e fiscalità generale , straordinari vettori di democrazia
negli ultimi duecento anni, non bastano più’ a generare un senso di appartenenza
e di partecipazione fra le persone.
E’ come se raggiunto un maggior grado di libertà individuale
avessimo bisogno di trovare nuove forme plurali per esprimerci, con degli
accenti qualitativi e non solo quantitativi.
L’economia come massimizzazione del profitto, ed in
tal senso come pratica estesa ad ogni attività umana ha visto il suo collasso
nel 2008. E’ necessario trovare una strada che non si fondi più’ su un idea
infinita di risorse che attivano una produzione infinita di beni sostenuta da
consumi infiniti attraverso debiti infiniti. La lezione in corso e’ pesante in
termini di conseguenze sulle persone , ma potrebbe essere l’alba di un sistema
economico maggiormente orientata ad un valore condiviso e plurale.
Assistiamo da tempo ad un mondo che si fa sempre piu'
piatto nelle relazioni sociali, ma paradossalmente piu' ingiusto e anomico.
Come si produce l'autorità in un mondo piatto, in cui la tecnologia sembra
essere la condizione di un linguaggio di eguaglianza.? Abituati ad un mondo
verticale assistiamo allo spaesamento di un mondo orizzontale. Eppure
potrebbero essere i tempi in cui il principio di fraternità possa trovare le
sue prime forme sociali compiute. Nuove istituzioni. Cosa c'e' oltre la"
morte del padre"? Nuove tirannie o nuove e vitali forme di fratellanza?
Anche la stagione dell' espansione illimitata
dell'io sembra al termine, un io onnivoro poliforme sempre alla ricerca di
nuove emozioni. Una dimensione antropologica che ha frantumato ogni legame in
nome di una autorealizzazione che non si realizza mai. Un desiderio che si fa
pura consumazione di godimento. Alla fine ci consegna persone sempre piu'
isolate e depresse. Che non sanno che farne della loro libertà. E' forse giunto
il tempo di una esperienza piu' consapevole e gioiosa dell' essere il tu
dell'altro? Dell' essere un noi? Di un esperienza piu' armonica di se' e quindi
comprensiva dell'alterita?
Quello che e’ certo e’ che senza un nostro
contributo fattivo, una ricerca comune che risponda a questi grandi quesiti che
stanno informando la trasformazione in corso, ci troveremo sempre più
marginalizzati in un mondo che si è fatto più’ piccolo.
Questi brevi accenni spero ci introducano a
descrivere un percorso, un compito per questo tempo. Compito delle persone
singolari e plurali, delle piccole comunità e delle città. Compito affascinante
che ci consegna un impegno di benedizione in questo tempo. Un impegno per noi e
per le generazioni future.con la certezza che da qualsiasi parte lo si prenda
si dovrà fare i conti con le altre componenti del problema. Perche' questo e'
un tempo che richiede di ritrovare una visione di insieme, anche se non
totalitaria. E' un tempo che richiede di connettere spazi, ambiti, pensieri e
competenze che si erano separate. E' un tempo buono ed e' il nostro tempo.
E' per questo che di fronte a cosi' grandi sfide e'
giusto parlare di modello italiano. Perche' nel momento della rigenerazione i
territori Italiani, e la bergamasca non fa eccezzione, hanno sempre trovato
idee, persone e risorse impensabili. Questo e’ il compito che riguarda il tempo
presente, che ci riguarda.
Il “modello italiano” da troppo tempo negletto e
subalterno rispetto ad altri, quello anglosassone o quello dell’Europa del
Nord, presenta certamente delle
patologie, come la pervicace resistenza al cambiamento e all’innovazione, il
familismo amorale, che lo porta a far prevalere le relazioni parentali rispetto
alle competenze, il localismo e campanilismo regressivi, il corporativismo, ma
al contempo anche grandi qualità e virtù che altrove mancano, come la vocazione
all’apertura e all’accoglienza, la valorizzazione dei rapporti e del contatto,
il bisogno di contiguità, la capacità di esaltare i profili positivi della
vita, il gusto estetico, la capacità di coniugare il particolare, la comunità
locale con l’universale.
Alla luce della considerazione iniziale e proprio
per fare di un momento di difficoltà un’occasione di crescita e di cambiamento
non anarchico, ma governato ed indirizzato verso un percorso consapevolmente
scelto, vorremmo contribuire a riproporre il modello italiano, in una forma,
ovviamente, aggiornata e corretta, come pietra angolare su cui rifondare la
struttura societaria della comunità nazionale, e delle comunità territoriali, a
partire dall’ambito più cruciale, cioè quello del welfare e, più in generale,
dei beni di comunità. Dai beni culturali all’educazione, dai beni ambientali ai
trasporti locali. Questo è il momento da cogliere per avviare una stagione di
innovazione istituzionale, centrata proprio sui beni di comunità, parte integrante
del modello italiano, e suo autentico patrimonio competitivo, che sconfigga i
grandi nemici dello statalismo pervasivo che ne soffoca la vivacità, e
dell’individualismo radicale che mina le basi della socialità.
Si tratta, più precisamente, di superare la
dicotomia pubblico/privato ancora dominate nella rete di protezione sociale,
per sviluppare un sistema che faccia spazio al “terzo pilastro”, all’economia
civile, consentendo una coabitazione armoniosa e proficua tra tutti gli attori.
Per fare ciò, bisogna costruire nuove forme di alleanza e mutualità, per
rilanciare le capacità di ritessitura dei legami sociali che si vanno
allentando, lavorando sia sul lato della domanda di tutele, attraverso il
contrasto alla pura e semplice privatizzazione dei servizi, sia su quello
dell’offerta, con il sostegno a nuove forme di ricomposizione del risparmio e
dell’assicurazione secondo basi neo-mutualistiche.
In Italia il tormentato
rapporto con i valori della modernità è la ragione profonda delle patologie a
cui rimane esposto che determinano una
diffusa resistenza al cambiamento e all’innovazione: il familismo
amorale, che fa prevalere la relazione sulla competenza; il localismo
regressivo, che si illude di potersi isolare dal mondo; il corporativismo
risorgente che finisce per ipostatizzare il gruppo a danno dell'individuo e
della collettività, fino ad arrivare alla mafiosità, che non riconosce il
valore dell’istituzione.
Eppure, in un’epoca di
grande travaglio storico come quella nella quale stiamo vivendo, tale modello –
sepolto sotto le macerie di un sistema politico completamente autoreferenziale
– continua a manifestare una straordinaria vitalità. I soggetti che lo
costituiscono – famiglie, associazioni, piccole imprese,cooperative, territori
– sono le ali che continuano a far volare il calabrone Italia. Ma, come la
storia ci insegna, tutto questo non basta. Lasciati soli, questi mondi sono
destinati a deperire di fronte alla potenze che si sprigionano nell’epoca della
globalizzazione. Ecco perché lo sforzo deve essere quello di trovare le vie per
ri-editare questa nostra specificità, in modi adeguati ai tempi. Cioè agli
standard e alle richieste del mondo globalizzato.
Per far questo occorre una
grande stagione di riforme istituzionali, nazionali e locali, la cui ambizione
sia quella di potenziare il modello italiano. Il che significa: alleggerire
l’invadenza dello stato non per privatizzare ma per socializzare; creare
strumenti e processi utili per accompagnare i nostri territori all’interno
delle reti, dei circuiti, dei mondi globali, che sono quelli dove oggi la
ricchezza – economica, culturale, umana -
viene allocata. Serenamente ma anche orgogliosamente convinti che
l’Italia ha nel suo DNA qualcosa che solo da qui, da questa terra, da questa
tradizione può essere detto. Ed e’ un possibile punto distintivo del modello
europeo.
In questo modello, la
generalizzazione viene dunque bottom-up, dal basso e dall'esperienza, a partire
dal rapporto storico con la pluralità e l'alterità, nella prospettiva di un
umanesimo integrale trascendente: che
non è un ossimoro, ma la declinazione antropologica di un monismo che rifiuta
sia le contrapposizioni che i riduzionismi.
È in questa radice, più che
nell'universalismo astratto delle procedure che ha paura di legarsi a dei contenuti
per timore di perdere in autonomia, che la valorizzazione della nostra identità
può trovare alimento, neutralizzando nel contempo le derive particolaristiche
che sempre stanno in agguato.
La “sapienza dei luoghi” (il
genius loci) e la sapienza delle pratiche vanno in questa direzione. La
testimonianza, la forza dell’esempio anche. In tutti questi casi c’è una
“forza” universale e universalizzante (una verità, una tradizione, una tensione
etica) che può esistere e continuamente rigenerare il presente, solo se si
incarna in una forma che, consapevole del proprio limite, è però l’unico modo
di far esistere l’universale. Nella serena consapevolezza che, senza questa tensione, l’universale resta astratto,
dogmatico, violento e il particolare resta chiuso, rattrappito, difensivo e
ottuso.
L’Italia è ricchissima di
esempi di questa universalità incarnata. Lo sanno i turisti stranieri, che
trovano qui qualcosa di assolutamente unico, che non incontrano altrove.
Nell’arte, nell’urbanistica, ma anche nella qualità di certe forme di vita,
fino alla tradizioni culinarie, spesso sviluppate a partire da situazioni di
penuria, ma capaci di realizzare qualcosa di valore.
Anzi, una delle
caratteristiche del genio italico è forse proprio la capacità di rovesciare il limite
in una risorsa, lo scacco in uno stimolo, attingendo da forze che eccedono la
situazione, per superarne i limiti in modo generativo.
Per l'Italia è l'occasione
imperdibile per avviare una grande stagione di innovazione istituzionale centrata sui
beni di comunità che fanno parte
del DNA più profondo del nostro paese. Beni di comunità intesi come nuove forme di governance
partecipata a base territoriale che non solo costituiscano una terza via tra
statalismo e mercatismo, ma che anche
aprano spazi concreti e realistici di esercizio concreto di
corresponsabilità democratica. Seguendo questa linea, l'innovazione
istituzionale, soprattutto in tema di
welfare, potrebbe aiutare a
sfuggire alla morsa tra lo stringente vincolo finanziario e la mera rivendicazione di diritti che si scaricano poi sul bilancio pubblico.
La sfida che abbiamo davanti riguarda, dunque, il governo e la produzione dei
beni di comunità intesi come punti di
mediazione tra la partecipazione, il bisogno, e la realizzazione di sé.
Sottolineiamo
solo di sfuggita che e’ proprio da queste innovazione che si puo’ contribuire
ad affrontare strutturalmente il tema dell’occupazione.
La crisi
finanziaria può costituire l'occasione per l'avvio di ambiziosi programmi di
riforma tesi a stimolare e rafforzare
le risorse sociali presenti - mediante la riorganizzazione dei flussi
finanziari prodotti dalle famiglie attraverso i risparmi, che ancora oggi si
disperdono all'interno del mercato finanziario senza lasciare traccia sulla
comunità e la valorizzazione delle
relazioni e dei legami esistenti, non più considerati come una riserva da
spremere per comprimere il costo dei sevizi istituzionalizzati, quanto invece
come un’infrastruttura informale preziosa per plasmare, contenere e soddisfare
la domanda. In questo modo, si individua una strada sia per contrastare quel
senso di demoralizzazione che attraversa le società avanzate, sia per avviare
significativi processi di innovazione organizzativa e finanziaria. L'obiettivo
è quello di fare in modo che questi beni di comunità siano contemporaneamente
produttori e distributori di valore dove nella parola valore si tengono
connessi la moneta, il servizio, i legami e i significati.
Ciò comporta anche
rivisitare la questione dei meccanismi di composizione del risparmio privato e
delle forme di assicurazione. Come é noto, nell'era keynesiana, la protezione
sociale è stata delegata allo stato che, mediante la tassazione, rastrellava le
risorse poi redistribuite attraverso trasferimenti e servizi. Negli ultimi
decenni, invece, un ruolo crescente è stato attribuito al mercato, in base al
principio di responsabilità e allo scambio tra domanda e offerta, caricando sul
singolo individuo il compito di provvedere alla propria protezione. Sono noti
pregi e limiti di questi due modelli. Quello che interessa sottolineare è che,
per fare un passo in avanti, occorre andare al di là di questa dicotomia, verso
la costruzione di un modello a tre pilastri, dove coesistono sistema pubblico,
privato e civile.
Per
superare l'impasse in cui si trova il sistema di welfare prigioniero della
dicotomia “lib-lab”, occorre allora
sviluppare la gamba “civile”. Non
si tratta di negare il ruolo dello
stato, improntato alla logica dell'universalismo. Tuttavia, non si può non
riconoscere che la crisi rende più difficile pensare di limitarsi a difendere
questa sfera, sia per problemi interni - legati ai livelli di efficienza - sia
per problemi esterni - quelli sopra ricordati in relazione allo sbilanciamento
tra democrazia e sistema tecnico, problemi che mettono in discussione proprio
la capacità dello stato di farsi garante
dell'universalismo. D'altra parte, l'erosione morale e istituzionale tipica
delle democrazie avanzate amplia la
quota di bisogni non coperti dal welfare, soprattutto presso i ceti medi e
medio-bassi. Secondo il senso comune
affermatosi negli ultimi decenni, la soluzione andrebbe cercata in qualche forma di privatizzazione;
soluzione che, per sua stessa natura, se spinta troppo oltre, si oppone alla
logica del welfare, teso ad intervenire in rapporto alla fragilità. Nè, d'altra
parte, si può essere sufficiente l'idea
di terzo settore così come si è andato formando negli ultimi due decenni
(almeno nel modello italiano): prestatore
di servizi a basso costo per conto dello stato.
La
strada innovativa da percorrere va, piuttosto, nella direzione della creazione
di forme nuove di alleanza e mutualità, a livello locale, capaci di sfruttare le pressioni oggi esistenti verso
una riorganizzazione del sistema di protezione
nella direzione di un rilancio della capacità di ri-tessitura dei legami
sociali diffusi. Un tale obiettivo può essere
raggiunto lavorando dal lato
dell'aggregazione tanto della domanda
quanto dell'offerta: sul primo versante,
contrastando attivamente la privatizzazione della protezione -
tendenza che finisce per rendere impossibile l'obiettivo che si
prefigge, dato che radicalizza l'individualizzazione in un campo che presuppone
socialità - favorendo l'aggregazione nelle forme e nei modi possibili; sul
secondo versante, sollecitando nuove
forme di ricomposizione del risparmio e
dell'assicurazione - secondo uno schema neo-mutualista - che permetta di creare
le condizioni, anche economiche, per l'ampliamento di uno spazio interstiziale tra lo stato
(basato sulla tassazione) e il mercato (basato sul prezzo) all'interno del quale l'economia civile possa davvero prosperare.
Se
ripensati secondo queste due prospettive, i beni di comunità possono trasformarsi da fattore di conservazione,
freno alla crescita, in una delle leve
strategiche per l’innovazione sociale, un ambito decisivo per la produzione di nuovo valore, luogo di uno
scambio positivo tra l'individuo e il suo contesto sociale, snodo del patto
sociale intergenerazionale.
Tale
prospettiva presuppone, in ogni caso, l’attenzione a garantire
contemporaneamente l’accessibilità di un
bene (sia esso di cura, educativo ,abitativo, ambientale, culturale,…) e la sua
sostenibilità, attraverso la declinazione di una prospettiva che superi la
dicotomia tra pubblico e privato, porti a valore rendite patrimoniali e risorse intangibili
quali la reputazione e il volontariato, unisca ciò che abitualmente è separato.
Ciò
significa in altri termini creare istituzioni nuove, capaci di ristabilire
attenzioni antiche quali la mutualità e la solidarietà e al contempo in grado
di tenere insieme ‘monetà, prestazioni e legami sociali.
Per
raggiungere quanto auspicato si tratterà di declinare strategie, plasmare
luoghi e forme sociali, promuovere azioni in cui alcune mediazioni vengano
fatte da soggetti aggreganti capaci di rilanciare una dimensione pubblica
territoriale.
L’orizzonte
che si intravede porta ad assumere i beni di comunità quale paradigma per ‘fare
nuove tutte le cose’, con autentico spirito innovatore capace di leggere e
vivere la modernità, con la consapevolezza che siamo all’interno di una fase
istituente e non solo di riforma o di aggiustamento.
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