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sabato 21 febbraio 2015

CRESCITA E RIGENERAZIONE DEI BENI DI COMUNITA'









Johnny Dotti  Imprenditore sociale






La grave crisi che stiamo attraversando, così densa di rischi ed incognite e che probabilmente non lascerà niente com’era prima che iniziasse, può rappresentare “un’opportunità per dare una svolta nel senso del cambiamento al modello sociale che finora abbiamo sperimentato” (Albert Einstein), permettendo al principio di sussidiarietà e a quello di solidarietà ,di farsi prassi buona, concreta e diffusa, e valorizzando le importanti risorse materiali e immateriali che esistono nel nostro Paese. E che esistono anche in una città come Bergamo.
Sinteticamente possiamo delineare la crisi con quattro facce. Politica, Economica, Sociale, Antropologica.
Sul versante politico e’ evidente da tempo come la democrazia sia alla ricerca di nuove dimensioni che ne rianimino la partecipazione . Voto e fiscalità generale , straordinari vettori di democrazia negli ultimi duecento anni, non bastano più’ a generare un senso di appartenenza e di partecipazione fra le persone.

E’ come se raggiunto un maggior grado di libertà individuale avessimo bisogno di trovare nuove forme plurali per esprimerci, con degli accenti qualitativi e non solo quantitativi.
L’economia come massimizzazione del profitto, ed in tal senso come pratica estesa ad ogni attività umana ha visto il suo collasso nel 2008. E’ necessario trovare una strada che non si fondi più’ su un idea infinita di risorse che attivano una produzione infinita di beni sostenuta da consumi infiniti attraverso debiti infiniti. La lezione in corso e’ pesante in termini di conseguenze sulle persone , ma potrebbe essere l’alba di un sistema economico maggiormente orientata ad un valore condiviso e plurale.
Assistiamo da tempo ad un mondo che si fa sempre piu' piatto nelle relazioni sociali, ma paradossalmente piu' ingiusto e anomico. Come si produce l'autorità in un mondo piatto, in cui la tecnologia sembra essere la condizione di un linguaggio di eguaglianza.? Abituati ad un mondo verticale assistiamo allo spaesamento di un mondo orizzontale. Eppure potrebbero essere i tempi in cui il principio di fraternità possa trovare le sue prime forme sociali compiute. Nuove istituzioni. Cosa c'e' oltre la" morte del padre"? Nuove tirannie o nuove e vitali forme di fratellanza?
Anche la stagione dell' espansione illimitata dell'io sembra al termine, un io onnivoro poliforme sempre alla ricerca di nuove emozioni. Una dimensione antropologica che ha frantumato ogni legame in nome di una autorealizzazione che non si realizza mai. Un desiderio che si fa pura consumazione di godimento. Alla fine ci consegna persone sempre piu' isolate e depresse. Che non sanno che farne della loro libertà. E' forse giunto il tempo di una esperienza piu' consapevole e gioiosa dell' essere il tu dell'altro? Dell' essere un noi? Di un esperienza piu' armonica di se' e quindi comprensiva dell'alterita?
Quello che e’ certo e’ che senza un nostro contributo fattivo, una ricerca comune che risponda a questi grandi quesiti che stanno informando la trasformazione in corso, ci troveremo sempre più marginalizzati in un mondo che si è fatto più’ piccolo.
Questi brevi accenni spero ci introducano a descrivere un percorso, un compito per questo tempo. Compito delle persone singolari e plurali, delle piccole comunità e delle città. Compito affascinante che ci consegna un impegno di benedizione in questo tempo. Un impegno per noi e per le generazioni future.con la certezza che da qualsiasi parte lo si prenda si dovrà fare i conti con le altre componenti del problema. Perche' questo e' un tempo che richiede di ritrovare una visione di insieme, anche se non totalitaria. E' un tempo che richiede di connettere spazi, ambiti, pensieri e competenze che si erano separate. E' un tempo buono ed e' il nostro tempo.
E' per questo che di fronte a cosi' grandi sfide e' giusto parlare di modello italiano. Perche' nel momento della rigenerazione i territori Italiani, e la bergamasca non fa eccezzione, hanno sempre trovato idee, persone e risorse impensabili. Questo e’ il compito che riguarda il tempo presente, che ci riguarda.
Il “modello italiano” da troppo tempo negletto e subalterno rispetto ad altri, quello anglosassone o quello dell’Europa del Nord,  presenta certamente delle patologie, come la pervicace resistenza al cambiamento e all’innovazione, il familismo amorale, che lo porta a far prevalere le relazioni parentali rispetto alle competenze, il localismo e campanilismo regressivi, il corporativismo, ma al contempo anche grandi qualità e virtù che altrove mancano, come la vocazione all’apertura e all’accoglienza, la valorizzazione dei rapporti e del contatto, il bisogno di contiguità, la capacità di esaltare i profili positivi della vita, il gusto estetico, la capacità di coniugare il particolare, la comunità locale con l’universale.
Alla luce della considerazione iniziale e proprio per fare di un momento di difficoltà un’occasione di crescita e di cambiamento non anarchico, ma governato ed indirizzato verso un percorso consapevolmente scelto, vorremmo contribuire a riproporre il modello italiano, in una forma, ovviamente, aggiornata e corretta, come pietra angolare su cui rifondare la struttura societaria della comunità nazionale, e delle comunità territoriali, a partire dall’ambito più cruciale, cioè quello del welfare e, più in generale, dei beni di comunità. Dai beni culturali all’educazione, dai beni ambientali ai trasporti locali. Questo è il momento da cogliere per avviare una stagione di innovazione istituzionale, centrata proprio sui beni di comunità, parte integrante del modello italiano, e suo autentico patrimonio competitivo, che sconfigga i grandi nemici dello statalismo pervasivo che ne soffoca la vivacità, e dell’individualismo radicale che mina le basi della socialità.
Si tratta, più precisamente, di superare la dicotomia pubblico/privato ancora dominate nella rete di protezione sociale, per sviluppare un sistema che faccia spazio al “terzo pilastro”, all’economia civile, consentendo una coabitazione armoniosa e proficua tra tutti gli attori. Per fare ciò, bisogna costruire nuove forme di alleanza e mutualità, per rilanciare le capacità di ritessitura dei legami sociali che si vanno allentando, lavorando sia sul lato della domanda di tutele, attraverso il contrasto alla pura e semplice privatizzazione dei servizi, sia su quello dell’offerta, con il sostegno a nuove forme di ricomposizione del risparmio e dell’assicurazione secondo basi neo-mutualistiche.
In Italia il tormentato rapporto con i valori della modernità è la ragione profonda delle patologie a cui rimane esposto che determinano una  diffusa resistenza al cambiamento e all’innovazione: il familismo amorale, che fa prevalere la relazione sulla competenza; il localismo regressivo, che si illude di potersi isolare dal mondo; il corporativismo risorgente che finisce per ipostatizzare il gruppo a danno dell'individuo e della collettività, fino ad arrivare alla mafiosità, che non riconosce il valore dell’istituzione.
Eppure, in un’epoca di grande travaglio storico come quella nella quale stiamo vivendo, tale modello – sepolto sotto le macerie di un sistema politico completamente autoreferenziale – continua a manifestare una straordinaria vitalità. I soggetti che lo costituiscono – famiglie, associazioni, piccole imprese,cooperative, territori – sono le ali che continuano a far volare il calabrone Italia. Ma, come la storia ci insegna, tutto questo non basta. Lasciati soli, questi mondi sono destinati a deperire di fronte alla potenze che si sprigionano nell’epoca della globalizzazione. Ecco perché lo sforzo deve essere quello di trovare le vie per ri-editare questa nostra specificità, in modi adeguati ai tempi. Cioè agli standard e alle richieste del mondo globalizzato.
Per far questo occorre una grande stagione di riforme istituzionali, nazionali e locali, la cui ambizione sia quella di potenziare il modello italiano. Il che significa: alleggerire l’invadenza dello stato non per privatizzare ma per socializzare; creare strumenti e processi utili per accompagnare i nostri territori all’interno delle reti, dei circuiti, dei mondi globali, che sono quelli dove oggi la ricchezza – economica, culturale, umana -  viene allocata. Serenamente ma anche orgogliosamente convinti che l’Italia ha nel suo DNA qualcosa che solo da qui, da questa terra, da questa tradizione può essere detto. Ed e’ un possibile punto distintivo del modello europeo.
In questo modello, la generalizzazione viene dunque bottom-up, dal basso e dall'esperienza, a partire dal rapporto storico con la pluralità e l'alterità, nella prospettiva di un umanesimo integrale trascendente:  che non è un ossimoro, ma la declinazione antropologica di un monismo che rifiuta sia le contrapposizioni che i riduzionismi. 
È in questa radice, più che nell'universalismo astratto delle procedure che ha paura di legarsi a dei contenuti per timore di perdere in autonomia, che la valorizzazione della nostra identità può trovare alimento, neutralizzando nel contempo le derive particolaristiche che sempre stanno in agguato.
La “sapienza dei luoghi” (il genius loci) e la sapienza delle pratiche vanno in questa direzione. La testimonianza, la forza dell’esempio anche. In tutti questi casi c’è una “forza” universale e universalizzante (una verità, una tradizione, una tensione etica) che può esistere e continuamente rigenerare il presente, solo se si incarna in una forma che, consapevole del proprio limite, è però l’unico modo di far esistere l’universale. Nella serena consapevolezza che, senza  questa tensione, l’universale resta astratto, dogmatico, violento e il particolare resta chiuso, rattrappito, difensivo e ottuso.
L’Italia è ricchissima di esempi di questa universalità incarnata. Lo sanno i turisti stranieri, che trovano qui qualcosa di assolutamente unico, che non incontrano altrove. Nell’arte, nell’urbanistica, ma anche nella qualità di certe forme di vita, fino alla tradizioni culinarie, spesso sviluppate a partire da situazioni di penuria, ma capaci di realizzare qualcosa di valore.
Anzi, una delle caratteristiche del genio italico è forse proprio la capacità di rovesciare il limite in una risorsa, lo scacco in uno stimolo, attingendo da forze che eccedono la situazione, per superarne i limiti in modo generativo.
Per l'Italia è l'occasione imperdibile per avviare una grande stagione di innovazione istituzionale  centrata sui  beni di comunità  che fanno parte del DNA più profondo del nostro paese. Beni di comunità  intesi come nuove forme di governance partecipata a base territoriale che non solo costituiscano una terza via tra statalismo e mercatismo, ma che anche  aprano spazi concreti e realistici di esercizio concreto di corresponsabilità democratica. Seguendo questa linea, l'innovazione istituzionale, soprattutto in tema di  welfare, potrebbe aiutare a  sfuggire alla morsa tra lo stringente vincolo finanziario e la  mera rivendicazione di diritti  che si scaricano poi sul bilancio pubblico. La sfida che abbiamo davanti riguarda, dunque, il governo e la produzione dei beni di comunità intesi come  punti di mediazione tra la partecipazione, il bisogno, e la realizzazione di sé.
Sottolineiamo solo di sfuggita che e’ proprio da queste innovazione che si puo’ contribuire ad affrontare strutturalmente il tema dell’occupazione.
La crisi finanziaria può costituire l'occasione per l'avvio di ambiziosi programmi di riforma tesi a stimolare e  rafforzare le  risorse  sociali presenti  - mediante la riorganizzazione dei flussi finanziari prodotti dalle famiglie attraverso i risparmi, che ancora oggi si disperdono all'interno del mercato finanziario senza lasciare traccia sulla comunità e  la valorizzazione delle relazioni e dei legami esistenti, non più considerati come una riserva da spremere per comprimere il costo dei sevizi istituzionalizzati, quanto invece come un’infrastruttura informale preziosa per plasmare, contenere e soddisfare la domanda. In questo modo, si individua una strada sia per contrastare quel senso di demoralizzazione che attraversa le società avanzate, sia per avviare significativi processi di innovazione organizzativa e finanziaria. L'obiettivo è quello di fare in modo che questi beni di comunità siano contemporaneamente produttori e distributori di valore dove nella parola valore si tengono connessi la moneta, il servizio, i legami e i significati.
Ciò comporta anche rivisitare la questione dei meccanismi di composizione del risparmio privato e delle forme di assicurazione. Come é noto, nell'era keynesiana, la protezione sociale è stata delegata allo stato che, mediante la tassazione, rastrellava le risorse poi redistribuite attraverso trasferimenti e servizi. Negli ultimi decenni, invece, un ruolo crescente è stato attribuito al mercato, in base al principio di responsabilità e allo scambio tra domanda e offerta, caricando sul singolo individuo il compito di provvedere alla propria protezione. Sono noti pregi e limiti di questi due modelli. Quello che interessa sottolineare è che, per fare un passo in avanti, occorre andare al di là di questa dicotomia, verso la costruzione di un modello a tre pilastri, dove coesistono sistema pubblico, privato e civile.

Per superare l'impasse in cui si trova il sistema di welfare prigioniero della dicotomia “lib-lab”, occorre allora  sviluppare  la gamba “civile”. Non si tratta di negare il  ruolo dello stato, improntato alla logica dell'universalismo. Tuttavia, non si può non riconoscere che la crisi rende più difficile pensare di limitarsi a difendere questa sfera, sia per problemi interni - legati ai livelli di efficienza - sia per problemi esterni - quelli sopra ricordati in relazione allo sbilanciamento tra democrazia e sistema tecnico, problemi che mettono in discussione proprio la capacità dello stato di  farsi garante dell'universalismo. D'altra parte, l'erosione morale e istituzionale tipica delle democrazie avanzate  amplia la quota di bisogni non coperti dal welfare, soprattutto presso i ceti medi e medio-bassi. Secondo il  senso comune affermatosi negli ultimi decenni, la soluzione andrebbe  cercata in qualche forma di privatizzazione; soluzione che, per sua stessa natura, se spinta troppo oltre, si oppone alla logica del welfare, teso ad intervenire in rapporto alla fragilità. Nè, d'altra parte, si può essere sufficiente  l'idea di terzo settore così come si è andato formando negli ultimi due decenni (almeno nel modello italiano): prestatore  di servizi a basso costo per conto dello stato.
La strada innovativa da percorrere va, piuttosto, nella direzione della creazione di forme nuove di alleanza e mutualità, a livello locale, capaci di  sfruttare le pressioni oggi esistenti verso una riorganizzazione del sistema di protezione  nella direzione di un rilancio della capacità di ri-tessitura dei legami sociali diffusi. Un tale obiettivo può essere raggiunto lavorando  dal lato dell'aggregazione  tanto della domanda quanto dell'offerta: sul primo versante,  contrastando attivamente la privatizzazione della  protezione -  tendenza che finisce per rendere impossibile l'obiettivo che si prefigge, dato che radicalizza l'individualizzazione in un campo che presuppone socialità - favorendo l'aggregazione nelle forme e nei modi possibili; sul secondo versante,  sollecitando nuove forme di  ricomposizione del risparmio e dell'assicurazione - secondo uno schema neo-mutualista - che permetta di creare le condizioni, anche economiche, per l'ampliamento  di uno spazio interstiziale tra lo stato (basato sulla tassazione) e il mercato (basato sul prezzo)  all'interno del quale l'economia civile possa davvero prosperare.
Se ripensati secondo queste due prospettive, i beni di comunità possono  trasformarsi da fattore di conservazione, freno alla crescita, in  una delle leve strategiche per l’innovazione sociale, un ambito decisivo per la  produzione di nuovo valore, luogo di uno scambio positivo tra l'individuo e il suo contesto sociale, snodo del patto sociale intergenerazionale.
Tale prospettiva presuppone, in ogni caso, l’attenzione a garantire contemporaneamente  l’accessibilità di un bene (sia esso di cura, educativo ,abitativo, ambientale, culturale,…) e la sua sostenibilità, attraverso la declinazione di una prospettiva che superi la dicotomia tra pubblico e privato, porti a valore  rendite patrimoniali e risorse intangibili quali la reputazione e il volontariato, unisca ciò che abitualmente è separato. Ciò significa in altri termini creare istituzioni nuove, capaci di ristabilire attenzioni antiche quali la mutualità e la solidarietà e al contempo in grado di tenere insieme ‘monetà, prestazioni e legami sociali.
Per raggiungere quanto auspicato si tratterà di declinare strategie, plasmare luoghi e forme sociali, promuovere azioni in cui alcune mediazioni vengano fatte da soggetti aggreganti capaci di rilanciare una dimensione pubblica territoriale.
L’orizzonte che si intravede porta ad assumere i beni di comunità quale paradigma per ‘fare nuove tutte le cose’, con autentico spirito innovatore capace di leggere e vivere la modernità, con la consapevolezza che siamo all’interno di una fase istituente e non solo di riforma o di aggiustamento.

 



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