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giovedì 5 marzo 2015

E’ il momento degli home-restaurant: ecco come aprirne uno a casa propria 



Dimenticate i guerriglia restaurant, temporanei, itineranti, uderground. Al limite della clandestinità. Oggi le cene in casa sono una delle tante facce della sharing economy: si condivide cibo genuino fra perfetti sconosciuti, contribuendo alla spesa. Tutto alla luce del sole. Il contatto si stabilisce sul web: su una delle tante piattaforme social si seleziona l’evento, si prenota e si paga. Oppure si riserva un posto direttamente sul sito (o sul profilo facebook) dell’home restaurant preferito. Esperienza imperdibile per i turisti desiderosi di scoprire dal vivo gusti e abitudini delle città che li ospitano, è ormai anche per i residenti l’ultima frontiera del social eating.
Presto anche su Airbnb
Il fenomeno è in espansione: sul portale Airbnb, dove i privati di 192 paesi possono affittare o subaffittare a chi è in viaggio la propria casa (o spazi extra) per brevi periodi, sarà presto attivo anche il servizio di home restaurant: si sta sperimentando in California. Ma in Italia e in Europa è già boom.
Tradizionale, etnico, creativo: il ristorante è in casa
Michele Ruschioni è un giornalista. Ha lasciato le cronache politiche di Libero per accogliere ai fornelli amici e avventori nella sua abitazione romana (zona Porta Pia) tra una libreria, qualche natura morta e un tavolo per 12 commensali, condendo la serata, due volte alla settimana, con aneddoti gastronomici in perfetto stile romanesco. Lo affianca la sua compagna Daniela Chiappetti, stessa passione per la cucina, che spazia dalle tradizioni della Roma papalina a quelle armene. In meno di un anno il loro home restaurant è fra i più richiesti della città.
Luca ed Elle ricevono in casa a Como, deliziando gli ospiti con specialità Thai, dai ravioli ripieni di gamberi al riso fritto, pollo avvolto in foglie di pandan, fish soup, insalata di papaya.
Per partecipare a una cena nel loft milanese di Melissa e Lele si prenota su Ma’ Hidden Kitcken Supper Club (max 10 persone). Lista d’attesa lunghissima. Spesso ai fornelli c’è lo chef Andrea Sposini che organizza per gli ospiti anche market tour e lezioni di cucina. Fra i piatti in menù filetto di maiale bardato al vino rosso, spinaci e peperoni al forno, miniburger di trota con asparagi e pomodoro fritto, mousse di fondente al tabacco toscano Kentucky.
Qui come altrove vale la regola del Byo, bring your own: da bere lo portate voi.
Tante community per promuovere cene social fra sconosciuti
La piattaforma social di riferimento per una serata alternativa fra le mura domestiche della Capitale è Ceneromane, dedicata ai viaggiatori e residenti in cerca di avventure gastronomiche in location di grande effetto. I padroni di casa affiliati sono una quarantina. Si tratta di un progetto autofinanziato, lanciato nel 2012. Da un anno è entrato in un programma di accelerazione di Sellalab (Banca Sella). La piattaforma gestisce direttamente i flussi di pagamento, incassando e girando ai padroni di casa la quota di competenza al netto di una trattenuta del 15% e delle spese di transazione. Il costo medio di una cena è di 40 euro.
Le Cesarine di Bologna hanno messo in pratica il progetto Home Food patrocinato dal ministero delle Politiche agricole, in collaborazione con l’Università, per valorizzare e diffondere la cultura del cibo tradizionale, del prodotto tipico e del territorio. L’iniziativa copre oggi l’Italia intera.
Gnammo.com (nata nel 2012 dalla fusione delle start up Cookous e Cookhunter, con sede a Torino e a Bari) è la più grande community italiana: è diffusa in 124 città dove ha arruolato 1.055 cuochi e realizzato 500 eventi social. Sul sito sono segnalati brunch da 10 euro fino a cene-spettacolo da 40. Ma anche menù indiani, messicani, vintage, come la serata a tema Grande Gatsby organizzata da Paolo nel loft all’interno dell’ex Richard Ginori a Milano. Menù a buffet con Waldorf salad, tacchino fritto freddo con salsa Worchester , Al Capone meatballs, pollo, mango e noci caramellate, brownies al cioccolato con prugne e Armagnac.
New Gusto è un progetto abruzzese e si rivolge soprattutto ai turisti per favorire scambi culturali attraverso il cibo. KitchenParty.Org è una comunità di “persone aperte e curiose che condividono la propria passione per la cucina e la buona tavola incontrandosi a casa e nei locali per conoscere ogni volta nuovi amici”. Per gli aspiranti chef, il motto è: “Il migliore ristorante è la tua cucina”. Peoplecooks si rivolge principalmente a studenti e a lavoratori fuorisede, turisti low cost e persone con difficoltà economiche: il pasto non supera i 6 euro.
Quelle di Soulfood (programma multidisciplinare nato da un’idea di Don Pasta – gastrofilosofo militante – e realizzato con Terreni Fertili, associazione impegnata per una nuova e sostenibile mobilità) sono cene carbonare che prevedono incursioni nelle abitazioni private di cuochi per caso, per sfizio, per una volta e mai più. Occasioni per “diffondere i concetti di sostenibilità, ecocompatibilità, cibo come mezzo di socializzazione ed integrazione, qualità della vita, resistenza”. Spesso con il coinvolgimento di Rural Hub, scuola di condivisione per progetti di social innovation applicati alla terra. Sensibili anche gli intellettuali: Stefano Benni a Roma ha letto dal vivo “Il bar sotto il mare” in un’autofficina su via Palmiro Togliatti, tra pittole pugliesi, alici fritte, polentina con totani e piselli.
Casa Maestoso, a New York lo chef cucina in appartamento
Eatwith (Techcrunch incubated) è invece un player internazionale che ha una piccola quota di mercato in Italia. E’ da lì che è partito Marco Maestoso, chef professionista a New York: dopo aver lavorato nelle cucine del Cipriani di Wall Street e del Sirio, ristorante del Pierre Hotel, oggi cucina nel suo studio a Manhattan, un monolocale di 50 mq con giardino, reinterpretando i classici della cucina italiana (e non solo). Lo affianca Dalila Ercolani, la compagna con cui divide l’appartamento: in meno di un anno hanno ricevuto 1.200 ospiti (selezionati da diverse piattaforme), che hanno gustato brasato al barolo e salsa ai funghi, ragù alla bolognese con fettuccine al cioccolato, tiramisù salato al nero di seppia e salmone. Le Majestic meatballs sono diventate un must della sua cucina “italiana con twist”.
A Londra il primo esperimento underground
Ma la pioniera dei Supper Club in Europa è MsMarmiteLover, ovvero Kerstin Rodgers, raffinata fotografa, che a Londra nel 2009 lanciò il suo ristorante casalingo, invitando gli ospiti a prenotare sul suo sito che oggi è al 29° posto nell’elenco dei migliori blog del Regno Unito. Segreta la data e l’indirizzo: all’inizio era un’esperienza clandestina. Ora un evento gastronomico in piena regola. L’ultimo, qualche giorno fa, è stato una tea party dedicato al miele con baklava, madeleine, pasticcini fatti in casa, torte salata: 50 sterline la quota di partecipazione, comprese una conferenza sull’apicoltura e una copia con dedica del suo ultimo libro Secret tea party.
Home Restaurant, le regole da seguire
Vi è venuta voglia di provare? Ecco cosa c’è da sapere. Se tutto si svolge tra le mura domestiche, la pratica del Supper club non costituisce attività commerciale. E non serve autorizzazione sanitaria, anche se è preferibile munirsi di un attestato sulla sicurezza alimentare. Relativamente all’aspetto fiscale, è possibile svolgere attività lavorativa occasionale, senza partita Iva, fino ad un massimo lordo di 5.000 euro annui, soglia di esenzione dall’obbligo contributivo. In caso di superamento dell’importo sarà sufficiente aprire una Partita Iva. Sul reddito generato, non superiore ai 30.000 euro annui, è previsto il regime agevolato dei minimi.







WatsAppUlula per la sicurezza del condominio

  (video)

Gaspare e Orazio mandati dalla diabolica Crudelia hanno trovato, nell’armonia delle relazioni tra animali, un vero osso duro.

Un esempio di successo della rete collaborativa: la "catena del crepuscolo". Efficientissimo sistema di comunicazione, grazie al quale i dalmata e i loro amici animali hanno sgominato una banda di manigoldi assicurandoli alla giustizia.

Conoscenza reciproca, fiducia e condivisione dell’obiettivo hanno dato vita ad una efficace ed efficiente organizzazione contro il crimine.

La “catena del crepuscolo” ci è apparso uno strumento metaforico ed allo stesso tempo utile nella custodia dei  beni  materiali e immateriali: la serenità familiare, i beni relazionali, ma anche la casa e le cose.

Un utile strumento facilmente replicabile nella quotidianità per la custodia dei nostri beni. La rete collaborativa fra abitanti e la “catena del crepuscolo” possono diventare un sistema di autocontrollo dei luoghi dell’abitare e del condominio.

Attiviamoci, dunque, perché l’esempio degli amici animali possa diventare un efficace ed efficiente sistema di reciproca collaborazione a custodia dei nostri “beni”.

Conosciamoci, fidiamoci, organizziamoci in gruppi di condominio e “ululiamo con WhatsApp”

Mettiamo i nostri beni al sicuro!



IL CONFLITTO COME OPPORTUNITA’
Vivere in un ecovillaggio, in un cohousing o in un'altra forma di comunità intenzionale non significa sottrarsi ai conflitti, ma anzi vedere in essi un'opportunità di crescita, individuale e collettiva. Attraverso un'esperienza personale, scopriamo quali possono essere degli strumenti utili per orientarci.
Il conflitto come opportunità
Lo devo ammettere, quando mi sono avvicinata agli ecovillaggi ne avevo una visione rosea e bucolica: pensavo che nelle comunità le situazioni di conflitto si verificassero raramente... mi sbagliavo di grosso!
Nel suo bel libro "Creare una vita insieme"(1), l'autrice statunitense Diana Leafe Christian mette subito la questione in chiaro intitolando il primo capitolo "Il dieci per cento ce la fa... perchè il novanta per cento fallisce?". Sembra una visione un pò pessimistica, eppure l'esperienza che ho maturato in più di quattro anni di servizio volontario nella Rete italiana villaggi ecologici (Rive) conferma le proporzioni indicate da Christian.
Come mai c'è una percentuale di successo così bassa?
Le cause ovviamente sono molteplici, ma prima di tutte la mancanza di consapevolezza del percorso intrapreso. Desideriamo vivere con altre persone per non sentirci soli, per lavorare insieme, per sentirci utili, però ignoriamo cosa tutto questo comporta. L'idea alla base di un ecovillaggio è creare una comunità resiliente, capace di adattarsi a situazioni di cambiamento repentino della società e dell'ambiente. E' una comunità intenzionale, ovvero un gruppo di persone che vivono nello stesso luogo condividendo un'intenzione: vivere insieme, in armonia con tutti gli esseri viventi.
Aderire a un progetto significa intraprendere un percorso di crescita personale e collettiva, in cui si riconosce che ogni membro porta con sé un bagaglio di vissuto che è inevitabilmente impregnato della stessa violenza che vediamo nel mondo. Siamo tutti pieni di paure, timori, insicurezze. Una comunità intenzionale esiste se condivide un sogno; un sogno non mio o tuo ma nostro; considerando anche il non umano e le generazioni future. E' più della somma dei singoli desideri, perchè tutti i membri vi si possono identificare. 
Il sogno è l'espressione di valori comuni, della responsabilità personale nel processo di realizzazione di piccoli e grandi obiettivi e il filo rosso degli accordi di rispetto reciproco nella quotidianità. I conflitti negli ecovillaggi ci sono, ma in questo contesto ho trovato delle persone che li vivevano in maniera diametralmente opposta a come li percepivo io fino a poco tempo fa, ovvero qualcosa di opprimente e da evitare a tutti i costi.
Un giorno, sfogliando Essere nel fuoco di Arnold Mindell(2) ho letto un passaggio che mi è rimasto impresso: «Creare libertà, comunità e rapporti sostenibili ha un prezzo. Richiede il tempo e il coraggio necessari per imparare ad «essere nel fuoco» della diversità. Questo significa rimanere centrati nel fuoco del conflitto. Iniziate dall’essere umili. Imparate la consapevolezza, imparate a riconoscere l’abuso di potere e i vostri privilegi». Per mesi non ho compreso a pieno il significato di questa esortazione, ma quando mi sono trovata nel bel mezzo di un conflitto mi ha toccata nel profondo.
Il mio istinto era quello di abbandonare la nave, incolpare gli altri di voler bloccare il mio desiderio di creare la comunità. Volevo portare l’attenzione del gruppo su alcuni temi specifici, ma mi sentivo una mammina rompiscatole. Ero impotente e a disagio. Mi arrabbiavo con me stessa perché non riuscivo a farmi ascoltare. Poi, pian piano, mi sono resa conto che i blocchi me li stavo mettendo da sola, perché mi ero già data per vinta e l’ascolto che cercavo era quello che invece dovevo dare.
Giocare con il linguaggio
Per non farmi prendere di sorpresa dai conflitti, ho provato a riconoscerli per tempo. Nel libro di Christian vengono elencati sei modi per evitare i conflitti strutturali (vedi box al termine dell'articolo): tutti consigli utili, che però non sono bastati a placare il mio disagio interiore di fronte a un conflitto. I facilitatori che seguono il mio gruppo ci hanno invitato a leggere Le parole sono finestre (oppure muri) di Marshall Rosenberg(3), padre della comunicazione non-violenta (Cnv). Così abbiamo cominciato a usare il metodo di Rosenberg nei cerchi settimanali(4). Come gli altri, ero un po’ scettica rispetto all’efficacia del linguaggio strutturato della Cnv sul conflitto, però avevo fiducia in chi ce lo aveva proposto.
Allora con i miei compagni di viaggio, fuori dai cerchi, abbiamo cominciato ad applicarlo in forma giocosa, in momenti legati alla vita di tutti i giorni, per esempio: «Quando la mattina prepari il caffè (fatto concreto), mi sono sentito molto felice (espressione del sentimento) perché ho bisogno di coccole (individuazione dei bisogni primari). La prossima volta che ne pensi di portarmelo a letto? (proposta)». Ridendo e scherzando, col passare dei giorni, siamo entrati nella logica di questo metodo. Ho focalizzato la mia attenzione sul sentire piuttosto che sul capire, sullo stare nel conflitto e non solo tentare di risolverlo.
Mi sono stupita della naturalezza con cui questo nuovo linguaggio cambiava il mio modo di fare o ricevere critiche. Prima provavo disagio, adesso mi sento in primo luogo più sicura. Avevo paura di essere noiosa a richiamare l’attenzione del gruppo su dei temi che per me erano di fondamentale importanza, poi un giorno ho preso la parola e ho detto: «Quando dedichiamo le nostre riunioni agli aspetti tecnici e pratici (fatto concreto), mi sento allarmata e preoccupata (espressione del sentimento) perché ho bisogno di condividere le motivazioni profonde che hanno spinto ognuno di noi a essere qui (individuazione dei bisogni primari). Siete d’accordo se alterniamo una riunione tecnica a una riunione emotiva? (proposta concreta)».
Il gruppo ha ascoltato la mia richiesta, ha compreso la sua importanza e così si è fatto. Che liberazione! «Le persone non sono turbate dalle cose, ma dalle opinioni che di esse si fanno» affermava il filosofo Epitteto. Pensando di essere noiosa, non esprimevo il forte bisogno che avevo dentro di me ed ero turbata perché gli altri non lo capivano. Vivere il conflitto non è fare una violenza su di sé, cancellando o nascondendo chi si è stati finora. Significa ascoltare a cuore aperto, imparando a riconoscere i sentimenti che stanno dietro la rabbia, accogliere il pezzo di verità che ognuno porta, sapere che chiunque arriva a voler far parte di un ecovillaggio ha con sé una grande valigia piena di valori ma anche di peculiarità che è necessario mettere a nudo per creare un ponte di fiducia tra i membri.
«Compostare» il conflitto
Le relazioni strette che si creano in un ecovillaggio fanno emergere incoerenze, insicurezze o fissazioni. I paragoni con l’altro, per esempio, sono all’ordine del giorno. Le nostre azioni rendono concrete quelle spinte silenziose che stanno dietro le quinte finché non esplode il conflitto. Queste energie possono chiamarsi educazione, carattere, esperienze di vita, cultura maggioritaria, cultura personale, competenze, grado di istruzione, genere, professione, età e così via.
Individuando insieme ai membri del gruppo le sfaccettature che ci compongono, posso accogliere i messaggi degli altri come un’immagine temporanea della situazione. Posso decidere di cambiare il mio stato in base a ciò che serve al gioco per andare avanti. Posso comprendere se in quel momento, in quell’istante, serve tirare fuori i miei talenti o metterli da parte per far uscire quelli degli altri. Si tratta in altre parole di «compostare» un momento di sofferenza per creare del buon terriccio per concimare il futuro!
«La comunità non è una cosa ragionevole» afferma provocatoriamente Eduardo Montoya, veterano del movimento italiano degli ecovillaggi e facilitatore di comunicazione non-violenta. «Non basta usare la razionalità o sentirsi tutti uguali per evitare il litigio. La diversità ci sarà sempre e quindi anche il conflitto, essenziale è passarci attraverso. Se poi vuoi evitare che il mondo si diriga verso un futuro di guerre per la sopravvivenza, devi imparare ad accettare l’alterità. La diversità è indigesta, ma se insegniamo al nostro corpo a metabolizzarla, potremo nutrirci di un alimento estremamente ricco per il nostro essere. Le emozioni represse, i bisogni insoddisfatti e la ricerca di significato sono problemi umani che svolgono ruoli centrali in qualunque organizzazione, indipendentemente dalla sua struttura e dalle sue finalità»(5).
Secondo quello che dice Eduardo, ho pensato, un ecovillaggio riproduce le stesse dinamiche che ci sono nei rapporti tra nazioni o tra diversi gruppi sociali. Comunque vada a finire il progetto, posso approfittare di questo osservatorio privilegiato per esplorare a fondo le dinamiche relazionali, di potere e di conflitto presenti in quella società che tanto critico. Consapevole di questo, sento già il peso del conflitto alleggerirsi. Non si tratta più di una cosa personale, di qualcosa di giusto o sbagliato tra me e te. Il conflitto è semplicemente un campanello d’allarme che scatta nel momento in cui c’è bisogno di fare un salto in avanti nella relazione.
Celebrare i propri passi
Per far funzionare un progetto e delle relazioni, non esiste un modo o una teoria migliore delle altre. Ho esplorato tutte le discipline del caso: il metodo del consenso, di cui si è parlato ampiamente nell’articolo «Ognuno ha un pezzo di verità» (Terra Nuova maggio 2014), la comunicazione ecologica ed empatica, l’ascolto profondo, il process work, la democrazia profonda e i vari percorsi di espressione corporea. Senza eccezioni, l’invito era sempre lo stesso: vivere il conflitto come un’occasione di crescita.
Mi ha colpito in particolar modo il dragon dreaming(6), un processo noto per la sua efficacia nella realizzazione di progetti. La sua struttura ruota intorno a quattro elementi: la condivisione del sogno, la progettazione, la realizzazione e la celebrazione. Queste fasi sono applicate a progetti piccoli e grandi, dalla semplice organizzazione di una giornata alla fondazione di un nuovo ecovillaggio.
La cosa che più mi ha colpito è l’importanza che viene attribuita alla celebrazione. Prendersi tempo per elaborare quanto è stato fatto, concludere ogni fase del lavoro, che sia andato a buon fine o meno, rende la comunità coesa nella consapevolezza che si è arrivati a quel punto insieme e che insieme c’è l’intenzione di proseguire. Celebrare significa riconoscere la bellezza di ciò che si sta facendo, vivendo, imparando. Segna la chiusura di un ciclo, da cui si può ripartire verso nuovi orizzonti. Tra pochi giorni la mia comunità compirà un anno. Anche se non fila tutto liscio, ci incontreremo per celebrare. Ieri sera ci siamo fatti grosse risate a ripensare a un anno fa, quando tutto è iniziato.
Chi l’avrebbe mai pensato che oggi, quello che era partito come un gioco ha cambiato le nostre vite e ci ha fatto crescere così tanto?
Nella partita della comunità ci sono accordi, percorsi, posizioni delle pedine, cambi di direzione, successi, sconfitte, sfide e conflitti. Non si può prevedere tutto, ma il villaggio continua ad esistere se, e solo se, c’è la voglia di mettersi in gioco, superare i blocchi emotivi, abbattere le barriere della razionalità. «Si può vivere il percorso di creazione di comunità allo stesso modo in cui si scala una montagna» conclude Montoya. «Posso percorrere il sentiero con l’idea fissa di arrivare in cima e vivere la frustrazione di un sentiero lungo e difficile. Oppure posso percorrere sentieri tortuosi e faticosi pensando all’obiettivo ma prendendomi il tempo, soffermandomi di tanto in tanto a guardare ciò che ho intorno: sassi che intralciano il cammino, fiori tra le rocce, grandi fiumi scintillanti da oltrepassare, luci che cambiano a seconda delle nuvole, il fischio del vento tra le cime, l’odore della pioggia. E sentire una grande compassione e commozione davanti a questo panorama sconosciuto e mozzafiato». Adesso questo l’ho imparato anch’io.
Note:
1. Diana Leafe Christian, Creare una vita insieme, Fiori Gialli Edizioni, Roma (2010)
2. Arnold Mindell, Essere nel fuoco, Animamundi e Terra Nuova Edizioni (2010)
3. Marshall B. Rosenberg, Le parole sono finestre (oppure muri), Esserci edizioni (2009)
4. Nel mio ecovillaggio, come in molti altri, le riunioni si svolgono in cerchio, a sottolineare l’uguaglianza di tutti i membri, la circolarità delle informazioni e l’assenza di un leader.
5. Mindell, op. cit.
6. Per ulteriori informazioni: www.dragondreaming.org (inglese); fondazionegaia.wordpress.com/risorse/dragon-dreaming (italiano)

articolo tratto dal mensile
di Francesca Guidotti



WELFARE DI COMUNITA' E INNOVAZIONE SOCIALE
"Fondazione Cariplo"


Archivio della generatività 

Social Street e Smart City


Cose che non si possono    comprare [VIDEO]

di Patrizia Cappelletti, in racconti (Genius Loci - achivio della generatività italiana)

Social Street di Via Fondazza è un’esperienza nata nel settembre 2013, a Bologna, con la creazione di un gruppo facebook a cui aderiscono i residenti della strada con l’obiettivo di instaurare tra loro nuove relazioni, stimolare la reciproca conoscenza e attivare microsolidarietà.
Gli scambi online sono infatti la premessa per la rivitalizzazione di una socialità di strada che porta le persone ad incontrarsi e stare insieme, aiutarsi reciprocamente, condividere passioni e interessi. Tutto a costo zero. Da questa prima Social Street ne sono nate altre circa 300 in Italia e nel mondo, dal Portogallo alla Nuova Zelanda.



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