di Sara De Carli
Dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva,
diceva Hölderlin. Lo citava Heidegger, come sorprendente chiusa di un saggio
sulla tecnica, e si sa che Heidegger una volta che ti ha colpito non ti lascia
più andare. E così, accettando di stare dentro questa catena, Silvano Petrosino
raccoglie la sfida intellettuale del rischio. Se in Babele (Il
Melangolo, Genova 2003) affrontava il delirio del senso dell’abitare umano,
simboleggiato dalla celebre torre, in Capovolgimenti (Jaca Book, Milano
2008), porta all’estremo il nesso ontologico fra l’uomo e il luogo che abita:
l’uomo non può che abitare, esiste abitando, cioè prendendosi cura dello spazio
che lo circonda, uno spazio che curva lungo due direttrici, il coltivare e il
custodire. Se si ragiona così, partendo dall’uomo e dalla sua natura, la casa
dell’uomo non potrà mai essere una tana. Così come come l’economia, cioè la
giusta legge della casa e di chi la abita, non potrà mai coincidere con il
business. Eppure tutti vediamo quotidianamente il contrario.
Sono i capovolgimenti – quello della sicurezza
perfetta, dell’ospitalità assoluta e del profitto infinito – che stravolgono
ciò che dovrebbe essere ma che hanno, come ogni perversione, i loro sottili
vantaggi. Per Petrosino non possiamo eliminare il rischio di cascarci dentro,
se volete è una condanna, ma abbiamo sempre la possibilità di cogliere lo
scarto e di tornare a interrogarci (sempre) sulla giusta misura del nostro
stare nel mondo.
Lei stabilisce una connessione
ontologica fra la persona umana e il luogo che essa abita. Solitamente si
ragiona o sulla persona o sull’abitare, senza intuire che tra le due c’è una
connessione così profonda. Ce la spiega?
Il punto di partenza è Heidegger, che distingue fra
spazio e luogo. Il luogo è altro dallo spazio, è lo spazio che si curva attorno
a un individuo determinato, un esistente, per cui se tu vuoi capire un luogo
devi capire innanzitutto l’essere che lo determina. Cosa facile da dire ma
complicata quando il vivente in questione è l’essere umano: nel caso del
vivente la legge è molto semplice, è quella della sopravvivenza, del territorio
di caccia – la ricerca del godimento, la riproduzione della vita,
l’affermazione del più forte – ma nel caso dell’uomo questi elementi (che ci
sono) non sono sufficienti.
Qual è il modo proprio in cui l’uomo
“curva” lo spazio che lo circonda?
La formula potrebbe essere questa: Heidegger dice che
l’uomo esiste in quanto abita, ed è molto bello, perché dice che il modo di
esistere dell’uomo si determina nell’abitare, nel dare forma allo spazio. Io
faccio questa aggiunta: l’uomo abita in quanto è abitato.
Abitato da che cosa?
Dall’alterità. Io credo sia sbagliato introdurre il
tema dell’alterità immediatamente in rapporto a Dio: quella è una dimensione,
ma non l’unica. L’alterità va sempre letta invece nelle sue tre dimensioni,
sempre intrecciate: l’alterità nei confronti dell’altro, che si declina poi nel
tema dell’ospitalità e del reale; l’alterità nei confronti
dell’Altro/dell’alto; l’alterità nei confronti della propria interiorità,
poiché c’è sempre qualcosa di estraneo anche nel proprio io.
Per questo la casa dell’uomo non può
mai ridursi a una tana?
Certo, la tana per l’uomo non funziona perché è la
speranza illusoria di assorbire totalmente l’alterità, di metterla a tacere. Ma
questo è impossibile. È ovvio che l’uomo determina lo spazio costruendosi
attorno un ambiente-mondo ordinato, “a portata di mano”: nel mondo c’è l’idea
di cosmo, di agenda, spazio ordinato. In questo senso il mondo è per eccellenza
lo spazio che si costruisce e si declina attorno a noi, sotto il nostro tocco.
Soltanto che inevitabilmente, poiché l’uomo stesso è abitato dall’interiorità,
il mondo a un certo punto esplode. Ed esplode sul reale, che è cosa diversa
dalla realtà, perché il reale è anche la mia interiorità, non solo ciò che mi
esterno ed estrinseco. Lacan lo spiega con una di quelle definizioni che solo i
geni sanno dare: «Il mondo è ciò che va, il reale è ciò che non va». Ovvero il
reale è il riconoscimento che il soggetto non è mai il proprietario della
propria esperienza, che l’esperienza è sempre la tua esperienza soggettiva ma
non è mai una tua proprietà.
La sociologia contemporanea parla di
non-luoghi. Agganciandoci alla sua riflessione, possiamo dire che quelli sono
non-luoghi perché lì l’uomo non crea il suo mondo, si tratta di spazi
indifferenti all’individuo che li abitano?
Io capisco che i sociologi parlino di non-luoghi per
indicare i luoghi di passaggio, impersonali, però come filosofo devo dire che
il non-luogo non esiste. Perché anche quello che è definito come non-luogo in
realtà è sempre un luogo abitato da un uomo. Cito un film, Irina Palm: c’è una nonna che per mettere
insieme i soldi per curare il nipote fa un lavoro squallido, masturba gli
uomini. Lei è in una stanza terribile, in un non-luogo, però dopo pochi giorni
porta un quadro con la foto del nipote e un mazzo di fiori. Cosa sta facendo
Irina Palm? Inizia ad abitare. Anche nelle stazioni ogni pendolare ha il suo
posto, prende il treno sempre dallo stesso punto della banchina, e pure nel
massimo dell’informalità come un campo rom ciascuno crea un suo spazio. Ci sono
testimonianze terribili e meravigliose in questo senso nei campi di
concentramento nazisti: si racconta di una mamma che a un certo punto sbotta e
rimprovera il figlio, «Smettila, non si mangia con le mani!». Ed il piatto era
quasi del tutto vuoto! Per me questo è l’umano. Certo, ci sono circostanze che
facilitano e circostanze che si oppongono all’abitare.
Però se l’abitare è un modo dell’io
di plasmare il mondo, è anche vero che il modello di stare nello spazio che ci
è proposto o imposto a livello sociale non è quello dell’abitare inteso come
mettere una persona al centro dello spazio. Cosa ci dice allora dell’umano il
fatto che le città che lui stesso crea sono ormai città che producono
sofferenza?
Innanzitutto dobbiamo dire che anche le nostre città,
che ci sembrano spesso così alienate e alienanti, sono in realtà dei luoghi e
non dei non-luoghi. Certo però bisogna capire qual è la preoccupazione
prima di questi luoghi: voglio citare la Genesi, per spiegarmi. La Genesi dice
che Dio fa il giardino e vi pone dentro l’uomo perché lo coltivi e lo
custodisca. Due cose insieme, coltivare e custodire. Cosa fa invece la società
di oggi? A me sembra che la nostra è una società che spinge al coltivare e
dimentica il custodire. Queste città che generano sofferenza sono dei luoghi,
non è la giungla, ma sono probabilmente luoghi mossi da una sola
preoccupazione, il consumismo, che curva lo spazio e lo organizza secondo le
sue esigenze. L’ideale della vita invece sarebbe il coltivare che custodisce.
Torniamo alla casa e ai suoi tre
capovolgimenti: la tana, la casa sempre aperta e il business.
Il tema di partenza è che la casa è ciò che si chiude
per riparare: dalle intemperie, dagli estranei, dai nemici. E si chiude intorno
a un’apertura, per cui una casa non può mai essere totalmente chiusa; però non
può essere nemmeno totalmente aperta. Io ho fatto questa lezione al
Politecnico, alla fine è venuta una ragazza e mi ha detto: «Professore, è molto
bello quello che ha detto, però i miei genitori facevano ospitalità continua,
io tornavo a casa e non sapevo chi aspettarmi, a volte andavo in camera mia e
mi trovavo un’estranea con cui dovevo condividere la stanza. Per me è stato
impossibile, non si può vivere così». È giusto, ha ragione lei. Bisogna
imparare la differenza fra l’ospitalità assoluta e l’ospitalità piena. L’uomo
non può vivere sempre nell’aperto, ha bisogno di un luogo in cui trovare la
propria intimità, raccogliersi, stare nudo con sé e con l’altro. Le stanze sono
questo, una casa nella casa. Quello di una casa totalmente aperta è un rischio,
una tentazione, anche se forse meno immediato da cogliere di quello della casa
blindata o cablata, della tana che si trasforma in una trappola. Kafka nel suo
racconto è stato un genio, perché il sibilo che l’animale sente e da cui vuole
ripararsi, lo continua a sentire anche dentro la tana: torniamo ancora al tema
dell’alterità. Tu puoi blindare tutto, ma anche allora resta il fatto che tu
sei abitato da un’alterità. Però anche una casa tutta aperta non è un luogo
dell’umano: l’ospitalità autentica, la giusta misura, è quella dell’ospitalità
piena ovvero di un’ospitalità rivolta alla totalità di una persona, che deve
salvaguardarne anche l’intimità.
Questo che indicazioni ci dà sul
tema sociale dell’accoglienza?
Rispondo filosoficamente, ma poi nella vita so che è
diverso. Filosoficamente dico che c’è il rischio di una perversione
dell’ospitalità, perché l’ospitalità vera è l’ospitalità alla totalità della
mia persona. L’ospitalità assoluta invece, che è una perversione, è paga di
ospitare, è indifferente a chi sta ospitando, chiunque va bene. Invece
l’ospitalità piena è un’ospitalità a me, al mio io particolare e individuale.
Filosoficamente quindi ci può essere un pericolo per le strutture che fanno
accoglienza e ospitalità, detto bene da Derrida: «Si può donare con generosità,
non per generosità». Nel primo caso sei in gioco tu, nel secondo è una
procedura. Poi è chiaro che realisticamente dobbiamo dire “per fortuna c’è
anche qualcuno che fa accoglienza anche solo per procedura!”. Nella realtà
bisogna stare attenti a non separare le cose, perché l’ospitalità a te è
certamente anche l’ospitalità ai tuoi bisogni, ma non solo quello.
Nelle letture che analizza nella
seconda parte di Capovolgimenti fa una riflessione sul fatto che,
nella Genesi, la domanda di Dio all’uomo è sempre «Dove sei?». Perché mettere
in primo piano il luogo?
Perché l’alternativa sarebbe la domanda «Chi sei?».
Quella però è una domanda troppo grande, vertiginosa, chi sa rispondervi? Alla
domanda «Dove sei?» invece possiamo sempre rispondere, perché ci chiede quale
posizione stiamo assumendo rispetto alla vita e alle cose, ci chiede «Dov’è il
tuo cuore?». Noi non sappiamo chi siamo ma sappiamo sempre che posizione
abbiamo, e alla fine si tratta sempre solo di due grandi possibilità: o che la
vita sia un’illusione o che la vita sia una promessa. Adamo risponde giusto:
sono nella paura. Il luogo da cui guardo il mondo adesso è la paura.
Una bella metafora dell’oggi…
La questione è questa. Un’amica una volta mi ha
chiesto: «Scusa, ma cosa avrebbe dovuto rispondere Eva al serpente, quando le
ha promesso che sarebbe diventata come Dio?». Ci ho pensato, e secondo me Eva
avrebbe dovuto rispondere che lei non voleva diventare “come”Dio, perché era
già “con” Dio. Io sono un uomo, sono limitato, ma sono in alleanza con Dio. Nel
momento però in cui il serpente riesce a togliermi dalla relazione e
dall’alleanza con Dio – ma non solo, anche con l’amato, il fratello, l’amico –
il mio limite mi diventa insopportabile. La paura nasce da quello,
dall’insostenibilità del limite, che è un grandissimo tema dell’oggi: questa è
un’epoca in cui le possibilità sembrano illimitate e accessibili a tutti, e il
rendersi conto di essere limitati è percepito come qualcosa di ingiusto e
intollerabile. Il limite invece non è un’obiezione, ma una condizione normale.
Ma dentro una relazione. Il fatto è che fuori dalla relazione con l’altro
diventa un’obiezione a me stesso e alle mie possibilità e anche una tentazione:
la tentazione a rompere la relazione, a isolarsi.
Partendo dalla casa lei rilegge
anche l’economia, che etimologicamente è oikos nomos, la legge della casa: un
concetto diverso dal business, che invece è una cosa irrelata.
L’economia è trovare la giusta misura all’interno
della casa, ovvero quella che rispetta chi abita nella casa. Se lavori otto ore
al giorno per mille euro e ti propongono di lavorare 16 ore per 3mila euro,
questa dal punto di vista del business è una scelta che conviene, ma dal punto
di vista dell’economia è distruttiva. In questo senso il business diventa
distruttivo della famiglia. Qual è la conseguenza politica? Che lo Stato deve
aiutare l’economia e l’imprenditore, non il business. Incentivare il part
time e le iniziative di conciliazione fra vita e lavoro per esempio è una
scelta nell’ottica dell’economia, non del business.
C’è una frase molto forte, nel
libro. «Ogni uomo è posto dinanzi all’urgenza di individuare qual è il modo
migliore di abitare». Qual è a suo parere il modo migliore di abitare?
Non lo so e non si deve sapere, però so che l’uomo non
può non sentire l’urgenza di cercare la giusta misura, poiché non esiste una
zona moralmente neutra. In più quello della giusta misura non è un compito
riservato ad alcuni uomini, bensì un compito per tutti gli uomini, perché è
questo che definisce l’uomo. Quindi per prima cosa è importante convincere i
ragazzi che non esiste il moralmente neutro. Poi il giusto dipende dalle
circostanze, come quando le suore di madre Teresa a Calcutta dicono che la loro
priorità è insegnare l’uso dei contraccettivi e non vivono come scandalo il
fatto che la Chiesa dica altro. Il tema di un abitare che rispetti l’ambiente
per noi è imprescindibile. Ma il rischio pazzesco è che per la prima volta si
profila la possibilità di generare senza sessualità. Qual è la giusta misura?
Ecco, adesso rispondo: per noi è custodire la vita nel rapporto carnale fra
l’uomo e la donna, senza bypassarlo.
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